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    arte,  podcards,  raffaello

    La Pala Baglioni di Raffaello Sanzio – PODCAST

    La deposizione di Cristo nota anche come la Pala Baglioni fu realizzata da Raffaello Sanzio nel 1507.

    L’opera fu commissionata da Atalanta Baglioni in onore del figlio Grifonetto, morto qualche anno prima.

    La pala doveva essere posta all’interno della cappella di famiglia, sull’altare del Salvatore, nella chiesa di San Francesco al Prato a Perugia. 

    Secondo il Vasari Raffaello ideò l’opera quando ormai si trovava a Firenze. Dai numerosi bozzetti preparatori sappiamo che fu un processo molto lungo.

    Descrizione dell’opera

    A dominare la scena, il corpo morente di Cristo, trasportato de tre uomini, il più giovane, al centro della tela, è Grifonetto Baglioni

    Partendo da sinistra, partecipano alla scena: San Giovanni Evangelista ( la figura con le mani giunte), Nicodemo e Maria Maddalena dipinta con la fisionomia di Zenobia Sforza, moglie di Grifonetto. 

    Dal lato opposto vediamo Maria svenuta, la quale è sorretta dalle pie donne, nel volto della Vergine Raffaello ritrae Atalanta Baglioni.

    Il confronto con Michelangelo

    In questo dipinto Raffaello crea dialogo diretto con il linguaggio espressivo del grande maestro Michelangelo Buonarroti. In particolare nel corpo abbandonato di Gesù il quale richiama direttamente quello della pietà Vaticana; mentre nella posa della donna inginocchiata verso Maria, in una posizione di torsione si riconosce una puntuale citazione del Tondo Doni

    Composizione originale

    Complessivamente l’opera si componeva di più elementi.

    Al centro vi era la pala con la La deposizione di Cristo, la quale era sormontato da una cimasa con la raffigurazione del Padre Eterno con gli angeli e con un fregio a grottesche. Nella parte inferiore vi era una predella con la rappresentazione delle Virtù teologali: la Fede, Speranza e Carità affiancate da Putti. 

    La pala Baglioni di Raffaello Sanzio: un insolito destino

    Purtroppo l’intera pala rimase solo un secolo sull’altare della cappella, una notte di marzo del 1608, l’opera con la Deposizione venne sottratta per volontà del cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V, e portata a Roma nella Galleria di famiglia, dove ancora oggi possiamo ammirarla.

  • arte,  arte contemporanea,  attualità

    L’arte di Giovanni Morbin in Something Else

    Alcuni lavori politici e le memorie di fascismi presenti.

    L’8 ottobre 2014 nella città croata di Rijeka viene inaugurata la mostra Something Else, una raccolta dei lavori politici e del l’arte di Giovanni Morbin.

    Il nucleo delle opere analizzate in questo scritto è costituito da due performance (Something Else e Me), due istallazioni (Me e On/Off), cinque collage, una scultura (L’angolo del saluto) e tre ready-made (Hiccup, Libero e Untitled). Partiamo però dal luogo scelto dall’artista per questa esposizione: Rijeka.

    Rijeka – Fiume: una polis proto-fascista

    Il riferimento alla storia del ventennio permea ognuno dei lavori in mostra e assume un valore semantico ancor più profondo se si considera la città esser stata, con la reggenza del Carnaro, una “polis proto-fascista” e il luogo natale di un esperimento totalitario. Lo stesso edificio dell’esposizione, lo studio della HRT ( Radiotelevisione croata) al cui interno è ospitato il Mali salon del MMSU (Museo dell’arte moderna e contemporanea), è un soggetto storico fondamentale, in quanto fu la sede fascista dal cui balcone Gabriele d’Annunzio prima, e Mussolini poi, si rivolgevano alle folle, innestando il saluto romano nella liturgia prossemica dell’epoca.

    Il saluto fascista: diffusione di un gesto

    Rijeka saluto nazista

    Rijeka dunque si rivela strettamente legata all’origine fascista di questo segno, il quale costituisce la base di molte delle opere in mostra. Infatti, nonostante la volontà di attribuire radici greco-romane per richiamarsi ad un glorioso passato, la standardizzazione del gesto, la sua celebrità e la connotazione politica, vedono il loro inizio nella conquista dannunziana al grido di «o Fiume o Morte» e nell’esperienza irredentista della reggenza. Un rito, quello del saluto, che divenne il più efficace visivamente per un rafforzamento del senso identitario e, insieme ad altri simboli, una forma «di propaganda per impressionare gli spettatori e conquistare proseliti».

    La spontaneità della simbologia e della ritualità di questo primo «stato di effervescenza collettiva» che alimentava il fiumanesimo, si tradusse con il passaggio di testimone da D’Annunzio a Mussolini in una vera e propria religione, intesa come pedagogia di massa. Il gesto sempre più collettivo e corale, espressione della sovra-eccitazione per una «comune esperienza di fede», divenne con la formula del «saluto al duce» l’esempio dell’accettazione di una «subordinazione di tutti alla volontà di un Capo». Scelta, questa, che passava anche attraverso un’immagine del corpo come strumento, il cui spirito motore doveva essere in ogni caso lo stato.

    Con questi presupposti le ‘azioni’ di Morbin assumono un valore semantico chiaro e potente. 

    Something Else: la performance

    Nel giorno di apertura della mostra, l’artista presenta la performance Something Else (Fig. 1-4), nella quale egli passeggia per le strade della città, costretto e sostenuto da un gesso nella posizione del saluto. Morbin offre il suo corpo al gesto fascista come molti in passato e nel presente decidono di fare, consci o meno di divenire medium di messaggi e ideologie politiche. Tuttavia c’è l’ironica «cifra ortopedica» del gesso a velare l’azione, introducendo il dubbio nella mente dell’osservatore – «it’s something else» – e svelando in parte la volontà dell’artista stesso di essere, con il suo corpo, «catalizzatore di reazioni».

    Giovanni Morbin, Something else, performance
    Giovanni Morbin, Something else
    Giovanni Morbin, Something else, performance
    Giovanni Morbin, Something else

    Come la performance anticipa, la mostra non appare pensata con finalità documentarie e didascaliche, piuttosto, evitando una re-immersione nella storia, Morbin tenta di destabilizzare e spiazzare lo spettatore attraverso l’insinuazione del dubbio.

    La serie L’angolo del saluto

    Libero (2007)

    Questa serie di opere nasce dall’individuazione dell’angolo del saluto fascista il quale diviene il limen tra una mise en scène corporea destinata a un pubblico e il volume d’aria sottostante. Questa contrapposizione complementare è resa evidente nell’opera Libero (2007), nella quale un libro viene tagliato lungo le semirette che compongono l’angolo, manifestando in copertina una separazione netta tra la folla e l’immagine del duce. Quest’ultima insieme al titolo in rosso «Monaco 1938» giace in orizzontale come testimonianza di una storia da leggere, mentre la restante parte con il sottotitolo «discorsi di prima e dopo» si erge a costituire una vera e propria maquette per la scultura.

    Giovanni Morbin, Libero (2007)
    Giovanni Morbin, Libero (2007)

    Hiccup (2007)

    All’immagine di Mussolini oratore fa riferimento l’opera Hiccup (2007), un giradischi su cui poggia pronto all’ascolto un vinile contenente discorsi del duce e tagliato secondo l’angolo sopra citato. Il titolo dell’opera – singhiozzo in italiano – evoca ciò che più è sconveniente per colui che deve parlare a un pubblico: una contrazione muscolare involontaria, un intoppo spietatamente ironico, un’interruzione di una qualsivoglia enfasi oratoria e, come non bastasse, un procedimento auto-distruttivo della test(in)a.

    GIOVANNI MORBIN Hiccup
    Giovanni Morbin, Hiccup (2007)

    Untitled (2014)

    Altro oggetto di questa serie è un goniometro Untitled (2014) in acciaio inox, in cui la funzione misuratrice viene inibita a favore di un’immobilità indicale: 133° ca., l’angolo del saluto appunto, l’assurda formalizzazione di un ‘ciao’ che deve sottostare, anch’esso, alle «atroci ‘regole auree’» e agli «pseudo scientifici ‘canoni’» del regime.

    Giovanni Morbin, Untitled (2014)
    Giovanni Morbin, Untitled (2014)

    È la forma derivata da questa misura ad essere applicata con carte trasparenti su quattro foto d’epoca (Untitled, 2006-2008) e a un’edizione del 27 febbraio 1940 de Il popolo d’Italia ( Il popolo d’Italia, 2007), ponendo in evidenza i volumi d’aria cuspidati risultanti dal gesto del saluto.

    Giovanni Morbin, Untitled (2006-2008)
    Giovanni Morbin, Untitled (2006-2008)
    Giovanni Morbin, Il popolo d’Italia, 2007
    Giovanni Morbin, Il popolo d’Italia, 2007

    On/Off

     Un differente utilizzo di una foto d’epoca è alla base dell’istallazione On/Off (2014). Nell’immagine sono ritratte delle infermiere insieme a due uomini, tutti in atto di saluto, ma con il braccio sinistro. Osservando attentamente i particolari si nota l’inversione delle allacciature di tute e camicie e quindi si deduce che la posizione, giusta nella realtà, ha subìto un capovolgimento nel processo di stampa. Volontario o accidentale che fosse, l’immagine viene ‘corretta’ dalle mani dell’artista, il quale, mettendole uno specchio di fronte, riporta alla luce l’originale, il negativo della foto, lasciando però al centro della scena un dubbio di lettura: un atto rivoluzionario o un semplice errore?

    Giovanni Morbin, On/Off (2014)
    Giovanni Morbin, On/Off (2014)

    L’angolo del saluto la scultura

    Il volume d’aria al di sotto del braccio teso fin qui nominato, prende forma materica nella scultura L’angolo del saluto (2006). Un prisma a base triangolare in MDF il cui vertice più acuto e alto è costituito da una lama di acciaio inox. La scultura appare allo spettatore nella sua aggressività, caratteristica conferitale secondo Cesare Pietroiusti dalla sua linea minimalista e netta, mostrando una potenzialità offensiva nient’affatto estranea al gesto del saluto fascista. Questo elemento permette un accostamento diacronico con «les forces de l’image» di numerosi lavori del ventennio in cui i meccanismi di rappresentazione contribuivano ad una estetizzazione della vita politica: «Alla violenza esercitata sulle masse, che vengono schiacciate nel culto di un duce, corrisponde la violenza da parte di un’apparecchiatura, di cui esso si serve per la produzione di valori cultuali».

    Giovanni Morbin, L'angolo del saluto
    Giovanni Morbin, L’angolo del saluto
    Giovanni Morbin, L’angolo del saluto

    La lama presente nell’opera, oltre a evocare la forma d’una ghigliottina, coerente con il sedicente movimento rivoluzionario che era il fascismo delle origini, può essere riferita anche all’immaginario comune della presenza di pugnali e coltelli nel saluto antico. A ciò si aggiunge il fatto che: «coloro che non salutavano erano messi al bando», a dimostrazione che il gesto stesso divenne un’espressione di adesione al progetto fascista. Strutturalmente la forza della lama si poggia su una costruzione cedevole, realizzata in materiale povero e logorabile al tatto, «quasi uno stampo per un’azione da compiere». 

    Giovanni Morbin, L'angolo del saluto
    Giovanni Morbin, L’angolo del saluto

    Tornando al processo di formazione della scultura, se vi applichiamo il pensiero di Luis Marin per cui «le roi n’est roi que dans ses images», si conferma l’importanza dell’azione di obliterazione messa in atto sull’immagine del duce. Il volume d’aria, seppur privato dello «charisme du chef», conserva nell’opera quel carattere di forza in potenza che di quello charisme era veicolo, rischiando di divenire esso stesso una maquette per il profilo di un qualsiasi altro capo.

    È nel progetto stesso del lavoro infatti il riferimento al carattere catartico della scultura, al suo essere liberatrice di inibizioni, un’idea da usare come attrezzo («‘reale’ misuratore angolare del saluto») per il cui utilizzo è però necessario attivarsi.

    Infine, nonostante la scultura rappresenti il frutto e lo strumento di «un’analisi di ordine comportamentale e gestuale», la materia non viene celata e anzi si evidenzia in una continua ricerca e «tensione verso la forma». Con il richiamo al saluto romano e alla sua potenziale energia Morbin non solo «indica il pericolo di una nuova ascesa dell’estrema destra», ma lancia un «monito rivolto allo spettatore a non distrarsi, a non abbassare la soglia dell’attenzione, a non esercitare un’azione – di qualsiasi natura – soprappensiero».

    Me performance e istallazione

    Giovanni Morbin, Me
    Giovanni Morbin, Me

    La performance

    Nella performance Me Giovanni Morbin rotea velocemente su uno sgabello, apparendo al pubblico come forma dinamica a pochi metri dal Ritratto continuo del duce (1933) di Renato Bertelli. La forza centrifuga impedisce all’artista di declamare la dichiarazione di guerra del 10 Giugno 1940 e dopo sette tentativi Morbin, rialzatosi da terra, si avvicina ad una parete e traccia una M in carattere fascista e, di seguito, una e corsiva (Fig. 17, 18). L’azione assume un carattere cruciale nel momento in cui, dopo i reiterati fallimenti, la protasi «I decided that I wanted to be fascist as well» viene messa in dubbio dalla scritta Me («questo sono io, scusate, ci ho provato, ma non riesco»). 

    Giovanni Morbin, Me

    Se in un primo momento la M, iniziale di Mussolini, ma anche dell’artista, rafforzava l’unione tra i due, l’aggiunta della e «implica una messa in gioco in prima persona» dello spettatore, in quanto Me, «lo dice e lo pensa un soggetto». La traslazione dell’interrogativo sull’osservatore è corroborata dal carattere fascista della prima lettera, la quale parla di una memoria storica condivisa, e, di contrasto, dalla soggettività del corsivo (carattere personale identitario) della seconda.

    Le foto della performance (Me, 2010-2011) esposte in mostra, aiutano a visualizzare il problema attorno cui ruota l’opera: il fuori fuoco. Su questo punto il lavoro di Bertelli è assimilabile al ritratto dell’artista in movimento: il primo, una «non rappresentazione dell’immagine di un dittatore», il secondo, una non rappresentazione, e quindi una pericolosa invisibilità, dei fascismi contemporanei.

    L’istallazione

    Me è anche un’istallazione (Fig. 19, 20), realizzata nel 2014 sulla facciata dell’edificio delle imposte dirette, ex casa del fascio di Valdagno, in cui l’artista decide di applicare a fianco della M mussoliniana una e corsiva in marmo rosa. Morbin in questo caso interviene su un edificio di chiara architettura fascista, riportando l’attenzione sulla storia di quel luogo e su ciò che esso significava per la comunità. L’artista si incunea, attraverso il pubblico, nella quotidianità privata del passante, presentandogli uno spunto per un’assunzione di responsabilità e di memoria.

    Giovanni Morbin, Me
    Giovanni Morbin, Me
    Giovanni Morbin, Me

    L’arte di Giovanni Morbin: memorie di fascismi presenti

    Un’introduzione di «gesti nello scorrere del giorno», questo sono le opere di Morbin, le quali una dopo l’altra mettono lo spettatore vis à vis con il proprio ego fascista, assopito in lui, e che «now is emerging again», ponendo ancora una volta la scelta di contrapporre o meno quel retorico ‘io no’ al fascismo interiore cui tutti ci illudiamo di contrapporci, «senza riconoscere che in realtà è dentro di noi». Un fascismo che tra le mani dell’artista diviene strumento maieutico di svelamento, nel presente, «di zone oscure che sono parte della nostra psiche» e, in termini sociali, di fermenti invisibili e subdoli «di fascismo patinato, di fascismo educato, di fascismo perbenista, di fascismo borghese, benestante e apparentemente anche benevolo».

    Lo studio del fenomeno come realtà storica è dunque teso all’elaborazione di procedimenti metaforici attraverso i quali giungere ad una individuazione e comprensione di quei fascismi meta-storici che invadono oggi la sfera antropologica e che prendono forma «nei modi di agire individuali e nella gestione del potere – politico, economico, mediatico». Opere che dunque portano a discernere sul contemporaneo assolvendo quello che è secondo Morbin il compito dell’arte e degli artisti: «rappresentare il proprio tempo offrendo il mondo in un modo che non è mai stato possibile vedere prima», avendo esse «il dovere di mettere in discussione le abitudini». E se, come sostiene Agamben, «può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità», si manifesta la necessità di leggere tra le righe del l’arte di Giovanni Morbin una stringente e urgente attualità.

    Bibliografia

    • Acquarelli, 2015: Luca Acquarelli, Esthétisation de la politique et diagrammes de force du pouvoir : la propagande fasciste, in Id., Au prisme du figural. Le sens des images entre forme et force, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2015, pp. 69-96.
    • Agamben, 2018: Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Milano, 2018.
    • Benjamin, 1998: Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino;1998.
    • Bignotti, 2010: Ilaria Bignotti, ICONE IMPOTENTI, il dissenso politico e ideologico nell’arte italiana contemporanea, dalla pop art alle ultime generazioni, in “Ricerche di S/Confine, oggetti e pratiche artistico/culturali”, vol. I, n. 1, Dipartimento dei Beni Culturali e dello Spettacolo Università di Parma, Parma, 2010, pp. 191-210.
    • Capra, 2014 (a): Daniele Capra, Mai abbassare la guardia, in Daniele Capra e Slaven Tolj (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 97-102.
    • Capra, 2014 (b): Daniele Capra (a cura di), Contro l’assopimento delle facoltà critiche. Conversazione con Cesare Pietroiusti, in Slaven Tolj e Daniele Capra (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 111-115.
    • Capra, 2014 (c): Daniele Capra (a cura di), Procedere per sviste. Conversazione con il sig. Orbin, in Slaven Tolj e Daniele Capra (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 116-120. 
    • Castiglioni, 2014: Alessandro Castiglioni, Corpo plurale. Ipotesi di lavoro per le Ibridazioni di Giovanni Morbin, in Slaven Tolj e Daniele Capra (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 103-104 
    • Fabbris, 2014: Eva Fabbris, Memoria corsiva, in Slaven Tolj e Daniele Capra (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, pp. 105-106.
    • Gentile, 2005: Emilio Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma, 2005.
    • Gentile, 2015: Emilio Gentile, Fascismo di pietra, Laterza, Roma, 2015.
    • Tolj, 2014: Slaven Tolj, O Fiume o morte, in Daniele Capra e Slaven Tolj (a cura di), GIOVANNI MORBIN Something Else, Kerschoffset, Zagreb, 2014, p. 95.
    • Winkler, 2009: Martin M. Winkler, The roman Salute, Cinema, History, Ideology, The Ohio state University Press, Columbus, 2009.

    Sitografia

  • Ecce Homo, Caravaggio
    arte,  Caravaggio,  Seicento

    L’Ecce Homo di Madrid: un Caravaggio?

    Si sa, appena si fa il nome di Caravaggio, è subito stupore e notizia. Ed è proprio grazie alla presunta paternità del Merisi, che l’Ecce Homo di Madrid è diventato in poche ore il dipinto del momento. 

    Come è noto, il quadro doveva essere battuto in asta a Madrid l’8 aprile scorso. Nel catalogo della casa d’Asta Ansorena era indicato al lotto 229: L’incoronazione di spine, olio su tela, 111×86 cm, attribuito alla cerchia di Jusepe de Ribera, con una base d’asta molto bassa: 1.500 euro. Forse un po’ troppo bassa.

    L'Ecce Homo di Madrid Caravaggio

    L’Ecce Homo di Madrid: descrizione dell’opera

    Al di là di una balaustra, con un taglio a mezzo busto, vediamo tre figure. Al centro Cristo coronato di spine, il capo leggermente chino e rivolto verso destra. Alle sue spalle lo sgherro che, con un’espressione attonita, fissa lo spettatore mentre compie l’azione di ammantare la figura di Gesù con un telo rosso. Infine, sul lato opposto in primo piano, vediamo la figura di Pilato con una fisionomia segnata e uno sguardo intenso. Anche quest’ultimo personaggio si volge all’osservatore.  

    Una composizione studiata per suscitare un intenso pathos, un’emozione umana vicina agli occhi di chi la guarda. Le tre figure sono pensate come una sola, tutto ruota intorno a Cristo: il protagonista dell’opera.

    La gestualità delle mani, assume in questa tela un valore centrale. Quelle di Pilato, in particolare, ci mostrano la figura del Cristo, l’una indicandolo e l’altra toccandolo.

    L'Ecce Homo di Madrid dettaglio
    dettaglio delle mani di Pilato

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    Le fonti ci dicono…

    Proviamo ora a ricostruire, attraverso le fonti storiche, quella che potrebbe essere la storia di questo dipinto.

    Nella biografia del Cigoli, scritta dal nipote Giovan Battista Cardi (1628) si fa riferimento ad un concorso voluto dalla Famiglia Massimi per la realizzazione di un Ecce Homo.

    Tale concorso interessò Caravaggio, il Cigoli e il Passignano.

    Inoltre sappiamo dalle note in alcune carte d’archivio della Famiglia Massimi a Roma che:

    «Io Michel Ang.lo Merisi da Caravaggio mi obligo a pingere all Ill.mo Massimo Massimi per essere stato pagato un quadro di valore e grandezza come è quello ch’io gli feci già della Incoronazione di Crixto per il primo di Agosto 1605. In fede ò scritto e sottoscritto di mia mano questa, questo dì 25 Giunio 1605.»

    (nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)

    «A dì marzo 1607 io Lodovico di Giambattista Cigoli o ricevuto da Nobili Signor Massimo Massimi scudi venticinque a buon conto di un quadro grande compagno di uno altra mano del sig.r Michelagniolo Caravaggio resto contanti scudi sopradetto Giovanni Massarelli suo servitore et in fede mia o scritto q.o di suddetto in Roma. Io Lodovico Cigoli.»

    (nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)

    Come racconta Giovan Battista Cardi il quadro vincitore fu proprio quello dello zio, il Cigoli, oggi conservato a Palazzo Pitti mentre gli altri due dipinti furono venduti.

    Cigoli Ecce Homo
    Cigoli, Ecce Homo 1607, Palazzo Pitti

    Inoltre il biografo Giovan Pietro Bellori nelle sue Vita de’ pittori, scultori et architetti moderni del 1672 scrisse così:

    «Michel Angiolo Merisi da Caravaggio…… Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispagna»

    Alla luce di queste testimonianze è possibile affermare che Caravaggio eseguì un Ecce Homo nel 1605, ma non sappiamo con certezza se si tratti proprio dell’Ecce Homo di Madrid.

    Attribuzione di Roberto Longhi

    Nel 1954 Roberto Longhi identificò come l’Ecce Homo Massimi il dipinto oggi conservato al Museo di Palazzo Bianco di Genova. Molti gli studiosi non concordi con tale attribuzione. Nonostante sia un dipinto che sicuramente guardi al Merisi, esso manifesta delle tonalità e dei tratti aspri, lontani dalla sensibilità pittorica del maestro. 

    Ecce Homo di Genova Caravaggio
    Attribuito a Caravaggio da Longhi
    Ecce Homo, 1605, Museo di Palazzo Bianco di Genova

    L’Ecce Homo di Madrid è di Caravaggio

    Invece per l’Ecce Homo di Madrid molti sono stati gli elementi che hanno convinto il mondo dell’arte. Così si è intonati tutti insieme e a gran voce il nome di Caravaggio, seppur con entusiasmi diversi. 

    Tra i più convinti, solo per citarne alcuni, vi sono: Massimo Pulini, Vittorio Sgarbi, Dario Pappalardo, Maria Cristina Terzaghi, Stefano Causa, e Rossella Vodret. 

    I dettagli chiave

    Secondo gli studiosi i dettagli rivelatori dello stile di Caravaggio sono da rintracciarsi nelle pennellate dense del manto purpureo (che sembrano richiamare la Salomè del Prado), nella costruzione di luci e ombre per esaltare la figura centrale del Cristo, nelle mani protagoniste (che con quel impercettibile tocco di luce sull’unghia del pollice di Pilato attraggono lo sguardo dello spettatore). E ancora: nelle labbra e negli occhi di Cristo (affine al David di Villa Borghese) e  in quel dettaglio morelliano dell’orecchio della figura in primo piano, con la chiarezza di delineazione e posizionamento tipica di Caravaggio, come sottolinea in un articolo Keith Christiansen.


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    Salomé Caravaggio
    Salomè, 1609 ca. Museo del Prado Madrid
    David Caravaggio
    David, 1610 ca. Galleria Borghese Roma

    La tecnica pittorica

    Dall’analisi di alcune macrofotografie si sono individuati degli abbozzi di ‘biacca a zig-zag’, un elemento nient’affatto marginale secondo la dottoressa Rossella Vodret. Infatti questo pigmento e le modalità del suo utilizzo si riscontra in alcune opere di Caravaggio a partire dal 1605, come il San Girolamo Borghese, il San Girolamo di Montserrat, la Flagellazione di Capodimonte. Tali abbozzi di biacca venivano impiegati dal Merisi per fissare, sulla preparazione scura, le zone da mettere in luce. 

    San Girolamo Caravaggio Galleria Borghese Roma
    San Girolamo, 1606 ca. Galleria Borghese Roma
    San Girolamo in meditazione
    San Girolamo in meditazione, 1605 ca. Museo del Monastero de Santa Maria, Montserrat
    Flagellazione, 1606, Museo di Capodimonte Napoli Caravaggio
    Flagellazione, 1606, Museo di Capodimonte Napoli

    Ipotesi di provenienza dell’Ecce homo di Madrid

    Vodret, insieme ad altri studiosi, non è concorde nel riconoscere la tela di Madrid come l’Ecce Homo Massimo (1605). Secondo la studiosa una possibile provenienza potrebbe risalire dalla raccolta di García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, che fu viceré di Napoli tra il 1653 e il 1659. Da alcuni inventari è noto che il viceré possedeva due tele originali di Caravaggio: una Salomè (di Madrid) e un Ecce Homo con soldato e Pilato che misurava 5 palmi. I dipinti sarebbero poi arrivati in Spagna in seguito alla fine dell’incarico come viceré.

    Recentemente sul il quotidiano El País sono stati resi noti gli attuali proprietari dell’opera: i Pérez de Castro Méndez.

    Una famiglia madrilena già nota al mondo dell’arte, in quanto responsabile della direzione della scuola di disegno e moda Iade di Madrid

    La loro discendenza risale a Evaristo Peréz de Castro, personaggio politico e redattore della Costituzione di Cadice del 1812. Il casato sarebbe entrato in possesso della tela nel 1823, ricevendolo in cambio di un’ opera di Alonso Canodalla dalla Real Academia di San Fernando, dove il Cristo dipinto era registrato come un “Ecce-Hommo con dos saiones de Carabaggio”.

    Un dipinto di impianto caravaggesco

    Tra i pareri più ponderati e prudenti troviamo quello di Tomaso Montanari il quale afferma in un suo articolo sul Fatto Quotidiano del 9 aprile:

    «Il coro degli specialisti che hanno visto l’opera pare unanimemente entusiasta. Una cosa risulta chiara anche dalle fotografie disponibili: la sua struttura è tipicamente caravaggesca. È certamente isterico tutto il carrozzone allestito nella sala parto mediatica che da Madrid si estende a tutte le redazioni del mondo: dalla rivendicazione della scoperta (in un imbarazzante sovrapporsi di: ‘l’ho detto prima io!’), al gioco dei rimbalzi tra siti, giornali, televisioni (…). Oggi, però, è concreta la possibilità che, alla fine, un Caravaggio nasca davvero. A suggerirlo sono la qualità, la forza, la presenza dell’opera stessa». 

    Montanari afferma inoltre :

    «L’invenzione del quadro (cioè la sua struttura, la composizione, la disposizione delle figure e la costruzione dei loro gesti) è tipicamente caravaggesca (…). La capacità di bloccare un attimo, raggiungendo il massimo del pathos attraverso la combinazione più drammatica possibile di poche mezze figure è la quintessenza dell’ultimo Caravaggio»

    Non tutti concordano con l’ipotesi Caravaggio

    E infine rimangono delle voci fuori dal coro. Una tra tutte quella di Nicola Spinosa, tra i massimi esperti delle pittura napoletana del Seicento. Quest’ultimo dissente dall’attribuzione al Merisi propendendo più per un caravaggista della prima ora, forse non proprio Ribera.

    Ribera, Ecce Homo
    Ribera, Ecce Homo, 1620 ca.
    Caracciolo Ecce homo
    Battistello Caracciolo, Ecce Homo 1611 ca.

    Dunque a chi dare ragione? 

    Solo il tempo ce lo dirà. Solamente uno studio accurato e approfondito, supportato dagli strumenti scientifici dalle indagini diagnostiche potranno sostenere l’ipotesi Caravaggio o smentirla.

    In ogni caso, che si tratti di un Caravaggio o no, l’Ecce Homo di Madrid è sicuramente un’opera di raffinata qualità pittorica ed emotiva. L’opera di un grande artista, quale esso sia. 

    L'Ecce Homo di Madrid Caravaggio
    L’Ecce Homo di Madrid

    articoli di riferimento:

    https://www.finestresullarte.info/interviste/rossella-vodret-ecco-perche-ecce-homo-potrebbe-essere-di-caravaggio
    https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/pi-caravaggio-di-cos-si-muore/135824.html
    https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/il-caravaggio-di-tutti/135831.html
    https://www.globalist.it/arti/2021/04/11/ecce-caravaggio-perche-gli-studiosi-dicono-che-il-quadro-di-madrid-e-suo-2078226.html
    https://www.repubblica.it/cultura/2021/04/07/news/caravaggio_ecce_homo_ritrovato_spagna-295457077/
    https://www.ilgiornale.it/news/cronache/cos-ho-salvato-caravaggio-dallasta-1937000.html
    https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/04/09/quando-si-scopre-un-caravaggio/6159965/
    https://www.repubblica.it/cultura/2021/04/23/newscaravaggio_proprietari_arte_mercato_vendita-297756838/
  • Incoronazione di Napoleone I Jacques Louis David
    arte

    Il Napoleone di Jacques Louis David e di Alessandro Manzoni

    Il Napoleone di Jacques Louis David, conobbe infine la morte. Alessandro Manzoni, nel suo celebre poema Il cinque maggio, restituisce così l’immagine d’un uomo, l’effigie di un imperatore.

    Ei fu. Siccome immobile

    Dato il mortal sospiro,

    Stette la spoglia immemore

    Orba di tanto spiro.

    Parole che consegnano all’eternità la vita e le gesta di un uomo, che riuscì in molto di ciò che si era preposto, e che, come dice brachilogicamente il Manzoni si trovò due volte nella polvere due volte sull’altar

    Parole queste, di uno che di Napoleone mai aveva scritto, mai lo aveva conosciuto di persona. Parole che rimbombano, oggi, nel frastuono silenzioso di questa ‘riapertura’, e ci ricordano sì la vita di un uomo dal temperamento indomito, dalla volontà ferrea e dai grandi progetti, ma anche, più crudamente, la morte, la terra. Ed è ciò che oggi, più di tutto, vorremmo dimenticare e mettere da parte: la sfilza di convogli militari colmi di bare, le fosse comuni statunitensi, le migliaia di morti nel mondo e nella vicina Lombardia, gli anziani nelle prigioni dorate.

    Loro furono. Deceduti, anche loro in esilio, dopo una vita. Persone semplici alle quali è stato negato, spesso, persino un ultimo saluto. Solo silenzio.

    Parole e immagini hanno il potere di circoscrivere l’infinitezza della morte. Parole scritte dai nonni ce li fanno rivivere seppur per pochi secondi, così le foto affisse sulle tombe o nelle cornici delle foto di famiglia. Ci regalano tuffi nel passato che si rivelano poi spesso tonfi al cuore e che, un cuore, ci ricordano di averlo

    Jacques Louis David da rivoluzionario a pittore ufficiale di Napoleone

    Certo, per Napoleone molte furono le parole e altrettante le immagini. Tra queste, le più celebri, e quelle che probabilmente egli stesso preferiva, erano le tele di Jacques Louis David. Pittore celebre della Francia dell’epoca, vincitore del Prix de Rome nel 1774, battagliero nelle questioni accademiche, rivoluzionario e autore di alcune delle immagini più celebri della rivoluzione: Il giuramento della Pallacorda, la morte del martire Marat

    Di lì a pochi anni, va detto, dopo non poche declinazioni agli inviti di Napoleone, divenne sostenitore di questo nuovo personaggio, e, infine suo pittore ufficiale

    Napoleone valica le Alpi al Gran San Bernardo

    Nel 1800 il re di Spagna Carlo IV richiede a David il ritratto del Primo console (Napoleone Bonaparte) da esporre nel salone ‘dei grandi capitani’ del Palazzo reale, in onore dei buoni rapporti che intercorrevano con la Francia. E’ in questa occasione che trova origine l’immagine più nota del condottiero che supera le Alpi al Gran San Bernardo. E finalmente, con quest’opera è svelato il mistero del colore del cavallo bianco di Napoleone. 

    Napoleone Bonaparte valica le Alpi al Gran San Bernardo, Jacques Louis David
    Napoleone Bonaparte valica le Alpi al Gran San Bernardo, Jacques Louis David

    Napoleone volle concordare con David i dettagli dell’opera, scegliendo la composizione che oggi vediamo in sostituzione di un semplice ritratto in piedi. Richiese a David una copia del dipinto. Oggi ne conosciamo circa sette copie. L’ufficialità della rappresentazione è calibrata da David secondo modelli classici: a cavallo come Luigi XIV, tra gli altri, e giovane come Alessandro Magno. 

    David insistette perché Napoleone andasse a posare nel suo atelier. Napoleone rispose:

    «Posare? a che pro? credete voi che i grandi uomini dell’antichità avessero il tempo di posare per le loro immagini?

    Quindi David: Ma cittadino primo console io dipingo in questo secolo, per uomini come voi, che sanno il valore di queste cose e la necessità della rassomiglianza.

    Napoleone: Rassomiglianza? Non è per l’esattezza dei tratti che si mette insieme un ritratto. E’ il carattere della fisionomia dell’anima che bisogna dipingere. […] Le persone non chiedono se il ritratto dei grandi uomini del passato sia somigliante, ma gli basta che attraverso quelle opere il loro genio riviva.»

    L’incoronazione di Napoleone

    Poi, nel 1804 David riceverà la commissione per quattro grandi tele di cerimonia, tra le quali, l’immagine eterna dell’incoronazione di Napoleone I: un dipinto terminato quattro anni dopo, oggi al Louvre e grande 9,80 x 6,20 m

    Incoronazione di Napoleone Jacques Louis David

    «Disegnai la scena dal vivo e fissai separatamente tutti i gruppi principali. Annotai quello che non potevo fare in tempo a disegnare […] Ciascuno occupa il posto secondo l’etichetta, vestito degli abiti propri alla sua dignità. Dovetti affrettarmi a riprenderli in questo quadro, che contiene più di duecento figure»

    Ciascun particolare su questa tela fu attentamente studiato. Le posizioni dei personaggi, molti dei quali riconoscibili, seguono l’etichetta di un rito deciso nei minimi dettagli da Napoleone stesso. Un’incoronazione ‘nuova’ che non poteva ricalcare in toto le cerimonie per i re di Francia e che attingeva a piene mani alla ritualità imperiale. Alcuni bozzetti dell’opera ci mostrano  i tratti originali e i cambiamenti che David apportò in corso d’opera.

    Bozzetto dell'Incoronazione di Napoleone, J. L. David
    Bozzetto dell’Incoronazione di Napoleone, J. L. David

    Napoleone che pone la corona sulla sua testa, nel dipinto sembra incoronare la moglie Giuseppina. La posa rassegnata e passiva del papa Pio VII diviene un atteggiamento benedicente. La madre di Napoleone Letizia assente all’incoronazione, compare, per volontà dell’imperatore, nel dipinto. 

    L’opera è un tripudio di ricchezza e sfarzo, tra i manti di velluto rosso rifilati in ermellino e trapunti di api dorate, e non dei gigli borbonici. 

    La morte di Napoleone

    Sarà nel 1815 che Napoleone, dovette fare i conti con la sua finitezza, di lì, esiliato sull’isola di Sant’Elena, morì nel 1821

    Come sul capo al naufrago

    L’onda s’avvolve e pesa,

    L’onda su cui del misero,

    Alta pur dianzi e tesa,

    Scorrea la vista a scernere

    Prode remote invan;

    Tal su quell’alma il cumulo

    Delle memorie scese!

    Oh quante volte ai posteri

    Narrar se stesso imprese,

    E sull’eterne pagine

    Cadde la stanca man!

    Napoleone in qualche modo ebbe tutto, persino anni di tempo per scrivere il suo passato e il futuro che s’immaginava. Questo (e molto altro) fu il Napoleone di Jacques Louis David e di Alessandro Manzoni.

    Oggi infine noi, dall’esilio speriamo finito, apprezziamo questo tempo che, se c’è è comunque vita, e usciamo dal naufragio bagnati di ricordi e, seppure stanchi, pronti!