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    Il Canto XIII dell’Inferno: Pier delle Vigne e i suicidi

    Attraverso questo canto XIII dell’Inferno della Divina Commedia, il poeta Dante ci conduce alla scoperta delle profondità umane. Un canto che, tra pietà, commozione e rispetto, affronta uno gli argomenti più dibattuti in seno alla Chiesa di allora e di oggi e al tempo stesso più personali e dolorosi: il suicidio. I suicidi saranno dunque i personaggi che incontreremo e, tra loro, conosceremo la tragedia di Pier delle Vigne.

    L'inizio del canto XIII dell'Inferno: il bosco

    «Non era ancor di là Nesso arrivato,

    quando noi ci mettemmo per un bosco

    che da neun sentiero era segnato.»

    (Inferno, Canto XIII, vv. 1-3)

    Immaginiamoci in compagnia di Dante il quale, terzina dopo terzina e canto dopo canto, continua nella discesa agli inferi. Giunti nel secondo girone del settimo cerchio ci ritroviamo al dentro di un bosco senza alcun sentiero tracciato. In una sola terzina il poeta detta linee e colori di quanto si presenta alla sua visione:  

    Non fronda verde, ma di color fosco;

    non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;

    non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 4-6)

    Colori scuri e tetri, linee curve e spezzate. Il bosco, l’unico dell’inferno, costituisce il paesaggio di questo canto.

    Dunque, quella che ci viene descritta è una selva verosimile che al poeta ricorda, anche se più fitta e impenetrabile, quelle della Maremma. Eppure è una selva a modo suo disumana, priva dei tratti di bellezza e fascinazione che caratterizzano i boschi terreni.

    Gustave Doré, canto XIII i suicidi e le arpie

    La pena dei suicidi: alberi in preda alle arpie

    Tuttavia il bosco non è solo ambientazione e paesaggio di questo canto XIII dell’Inferno. Gli alberi che lo compongono celano in realtà un’invenzione quasi cinematografica.

    «Io sentia d’ogne parte trarre guai

    e non vedea persona che ’l facesse;

    per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

    Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse

    che tante voci uscisser, tra quei bronchi,

    da gente che per noi si nascondesse».

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 22-27)

    Qui Dante ode delle voci e in queste terzine parla e ragiona da uomo: chiunque infatti, al sentire in un bosco delle urla, crederebbe qualcuno nascosto dietro agli alberi. Sono invece le anime dannate dei suicidi racchiuse nei tronchi. 

    Ecco allora che il bosco è sì il paesaggio di questi cerchio, ma ne è anche il personaggio, gli abitanti.

    «Però disse ’l maestro: “Se tu tronchi

    qualche fraschetta d’una d’este piante,

    li pensier c’ hai si faran tutti monchi”.

    Allor porsi la mano un poco avante

    e colsi un ramicel da un gran pruno;

    e ’l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?. […]

    Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”.»

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 28-33)

    Dante e Pier delle Vigne canto XIII Inferno

    Ebbene questo è il momento in cui si oltrepassa il confine del reale e le parole iniziano a descrivere facendosi immagine. 

    Siamo nel secondo girone del settimo cerchio, ove sono puniti coloro che hanno usato violenza contro se stessi: i suicidi e gli scialacquatori.

    Dannati e pena rientrano allora, alla luce di quanto detto, nel mondo regolatore del contrappasso: coloro che hanno rinnegato e rifiutato il loro corpo, sono costretti nell’inferno sotto le sembianze di sterpi continuamente spogliati e rotti dalle arpie.

    Quindi, Dante riprende l’invenzione della pianta che prende la parola dal libro III dell’Eneide, poema scritto dal Virgilio da lui scelto come guida. Eppure l’essenza di questi rovi e di questi arbusti e alberi umanizzati è caricata da Dante di un significato nuovo, pregno della morale cristiana.

    La storia di Pier delle Vigne: il canto XIII della Divina Commedia

    «Come d’un stizzo verde ch’arso sia

    da l’un de’ capi, che da l’altro geme

    e cigola per vento che va via,

    sì de la scheggia rotta usciva insieme

    parole e sangue; ond’io lasciai la cima

    cadere, e stetti come l’uom che teme.»

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 40-45)

     

    La narrazione che riguarda la vicenda di Pier delle Vigne è una delle più figurative e concrete di tutta la Divina Commedia. In questi versi Dante restituisce un’immagine precisa e quanto mai surreale della sua visione: un ramo spezzato dal quale escono insieme sangue e parole con la stessa leggerezza con la quale esce il fumo da una estremità d’un tronco ardente.

    Ma chi è allora il tronco al quale Dante si è apprestato e al quale ha staccato un ramo? 

     

    «Io son colui che tenni ambo le chiavi

    del cor di Federigo, e che le volsi,

    serrando e diserrando, sì soavi,

    che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;

    fede portai al glorioso offizio, 

    tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi.»

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 58-63)

     

    Pier delle Vigne fu personaggio chiave del regno di Federico II. Nato a Capua, studiò a Bologna e fu accolto intorno al 1220 alla corte dell’imperatore come notaio della cancelleria imperiale. Per più di venti anni svolse numerose cariche di prestigio presso la corte, amministrative e diplomatiche fino a divenire primo segretario e portavoce di Federico II.

    L'ingiustizia «ingiusto fece me contra me giusto»

    Nel 1249 fu però privato di ogni carica, arrestato e incarcerato. Fu accecato con un ferro rovente e in questa condizione di prigionia decise di darsi la morte

    La meretrice, l’invidia, che è morte comune e vizio diffuso nelle corti 

    «infiammò contra me li animi tutti;

    e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,

    che lieti onor tornaro in tristi lutti.

    L’animo mio, per disdegnoso gusto, 

    credendo col morir fuggir disdegno,

    ingiusto fece me contra me giusto»

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 67-72)

    Quest’ultimo verso rivela la prospettiva di colui che compie l’atto e tutto ruota attorno alla giustizia e alla dimensione di solitudine amplificata dalla ripetizione del «me». Solitudine, isolamento che si fanno carne nell’opera realizzata da Valentina Vannicola per questo canto XIII.

    E se qualcuno di voi due tornerà nel mondo – continua il personaggio – «conforti la memoria mia». La mente del dannato è concentrata sulla dimensione terrestre, sulla memoria del suo nome.

    Valentina Vannicola, I suicidi

    Il suicidio secondo Dante

    Il suicida, in Dante e in questo canto XIII dell’Inferno, perde l’occasione di un riscatto, lascia da parte una realtà che si trova poi a rimpiangere, non solo e non tanto per la condizione infernale che si troverà a vivere, quanto per non aver possibilità di riscattare le motivazioni per le quali ha compiuto quell’atto di superbia

    Un supremo atto di ingiuria verso se stesso e verso il supremo amore divino.  

    Infine, la critica ritiene questo uno dei canti perfetti della Commedia. Dietro questa perfezione non possiamo che ravvisare un sentimento profondamente umano che Dante, pellegrino e scrivente, prova nei confronti di questi dannati: «tanta pietà m’accora»

    Ciò che fu Federico II per Pier delle Vigne, fu Firenze per Dante.

    In questo canto traspare una riflessione acuta e accurata dell’uomo Dante sul suicidio e sulle ragioni, una riflessione anche autobiografica.

    Ma veniamo a noi. Le due illustrazioni che hanno accompagnato questo percorso sono incisioni di Gustave Dorè, nelle quali sembra emergere una corrispondenza tra i tracciati delle linee e il lessico usato da Dante nello svolgersi di questa vicenda. Un lessico e una sintassi cupi, duri, distorti, spezzati, rotti

    Aggettivi che potremmo traslare alla realtà dei suicidi e dei violenti contro se stessi. Non solo a quelli immaginati e descritti da Dante, bensì a quelli dei nostri giorni. Non solo dopo morti, come in queste emerge in queste due tele di Manet e Frida Kahlo, ma spezzati da vivi.

    Manet, Il suicida
    Frida Kahlo, Il suicidio di Dorothy Hale

    Spezzati da vivi

    Dunque spezzati da vivi. Come se nel suicidio ci fosse la volontà di uniformare il corpo all’animo già spezzato in vita. 

    Violenza che si fa contro se stessi è spesso violenza già subita da altri. Al centro del canto Dante pone questa frattura tra uomo e uomo, tra uomo e comunità, questa solitudine che è spesso la causa dello spezzarsi di «quella resistenza interna dell’animo umano che non riconosce altra misura fuori di se stesso». 

    Con profondità il Sommo poeta consegna alla storia le anime dei suicidi, lasciando trasparire quella pietà che sarà poi da Fabrizio De andré trasformata in un inno, in una Preghiera in Gennaio.

    «Lascia che sia fiorito
    Signore, il suo sentiero
    Quando a te la sua anima
    E al mondo la sua pelle
    Dovrà riconsegnare
    Quando verrà al tuo cielo
    Là dove in pieno giorno
    Risplendono le stelle

    Quando attraverserà
    L’ultimo vecchio ponte
    Ai suicidi dirà
    Baciandoli alla fronte
    Venite in Paradiso
    Là dove vado anch’io
    Perché non c’è l’inferno
    Nel mondo del buon Dio»

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