• arte,  Donne d'arte,  Seicento

    Artemisia Gentileschi autoritratto o allegoria della pittura?

    «Essa ci pare l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura ,e colore, e impasto, e simili essenzialità»

    Roberto Longhi (1916)

    Artemisia nacque a Roma nel 1593, si formò sulle opere del padre Orazio Gentileschi, caravaggista della prima ora, manifestando sin da subito talento e dedizione per l’arte e facendosi largo tra i pittori a lui contemporanei. La pittrice nel 1630 si spostò a Napoli, mentre il padre si era già trasferito a Londra alla corte del duca di Buckingham George Villers, favorito di Carlo I Stuart. Successivamente Artemisia raggiunse il padre in Inghilterra. Non sappiamo molto di questa parentesi inglese: le fonti datano il suo soggiorno tra il 1638-1639, poi non si hanno più notizie fino al 1649, quando è nuovamente nella sua bottega a Napoli. Lì morì nel 1653 ca. 

    Dipinto della Royal Collection

    Tra i dipinti più affascianti della pittrice ricordiamo l’Autoritratto come Allegoria della pittura. Il dipinto fa parte della collezione reale britannica e la sua paternità alla casata è attestata già dal 1649, nell’inventario di Carlo I Stuart. In basso al centro è ancora visibile la firma A.G.F.(Artemisia Gentileschi fecit).

    La tela è ancora oggi avvolta nel mistero sia per il luogo in cui fu eseguita che per la sua datazione. La Royal Collection sostiene che il quadro sia stato realizzato a Londra tra il 1638 e il 1639; al contrario studiosi come Micheal Levery e Mary Garrard ritengono che il dipinto sia da collocarsi nel primo trentennio del Seicento quando Artemisia era ancora a Napoli. Inoltre i due studiosi identificano l’opera con quella citata da Artemisia nelle lettere inviate a Cassiano del Pozzo (1630): 

    « […]Per servire V.S. ho usato ogni diligenza in farle il mio ritratto, il quale l’invierò con il seguente procaccio […]» 

    Quale sia l’ipotesi giusta non possiamo dirlo perché entrambe risultano plausibili ma allo stesso tempo confutabili a causa di molte lacune nella biografia di Artemisia. Quello che è certo è che siamo davanti ad un’opera di raffinata manifattura, innovativa nella scelta della composizione e di rara bellezza. 

    l’iconografia

    Una donna in vesti cangianti verdi e brune, con i capelli neri raccolti, con il viso preso di scorcio assorto nei suoi pensieri creativi e il braccio teso verso l’alto colta nel gesto del dipingere. 

    Autoritratto come Allegoria della pittura (1638-1639)

    Tale rappresentazione coincide perfettamente con la tradizione iconografica del tempo della rappresentazione personificata della Pittura, trascritta dall’intellettuale Cesare Ripa nel XVI secolo: 

    «Donna bella, con capelli neri et grossi, sparsi et ritorti in diverse maniere, con le ciglia inarcate che mostrino pensieri fantastichi, si cuopra la bocca con una fascia ligata dietro a gli orecchi, con una catena d’oro al collo, dalla quale penda una maschera et habbia scritto nella fronte imitatio. Terrà in una mano il pennello et nell’altra la tavola, con la veste di drappo cangiante, la quale le cuopra li piedi et a’ piedi di essa si potranno fare alcuni istromenti della pittura, per mostrare che la pittura è esercitio nobile, non si potendo fare senza molta applicatione dell’intelletto, dalla quale applicatione sono cagionate et misurate appressodi noi tutte le professioni di qual si voglia sorte, non facendo l’opre fatte a caso, quantunque perfettissime alla lode dell’Autore, altrimente che se non fussero sue »

    La scelta compositiva è insolita per Artemisia: audace, indipendente dalla tradizione pittorica italiana, così vicina allo stile fiammingo di van Dyck e lontana dalle sue opere più “canoniche” caratterizzate da un taglio frontale e il volto rivolto verso l’osservatore. 

    Vi sono inoltre elementi che si avvicinano al linguaggio caravaggesco come ad esempio la composizione della mano che tiene il pennello.

    Allegoria o autoritratto?

    La posizione della figura e la scelta compositiva sono elementi che spingono a chiedersi se quest’opera sia davvero l’autoritratto della celebre artista. Quest’aspetto risulta ancor più anomalo se si considera che il dipinto fu probabilmente dato in dono al re Carlo I Stuart.

    Così Anna Banti narra nella biografia di Artemisia:

    «[…] il ritratto di giovinetta e quella scritta: Artemisia Gentileschi. Con che fatica la compitavano gli Inglesi in visita domenicale. E altrettanto fecero e facevano, in diverse occasioni, quelli del milleseicentoquaranta, quarantuno, e su su, ripetendo, rileggendo quel nome straniero, tutte le volte che la tela fu raccolta, riposta, esposta, disprezzata, lodata, ritrovata. In verità il soggetto piaceva: una giovane che dipinge, una donna del mezzogiorno, e con quei capelli neri sfatti, da avvicinarla senza complimenti. «La Pittura» dissero un certo giorno i custodi dei palazzi reali. «Autoritratto di Artemisia Gentileschi» dichiarò il solito discendente di lady Arabella, appassionato di archivi.» 

    Tenendo in considerazione la personalità eclettica di Artemisia e la sua notevole abilità nel dipingere, è plausibile credere che tale dipinto possa porsi come punto di rinnovamento della tradizione pittorica in cui una figura allegorica invece che essere mero simbolo, diviene reale, incarnandosi in un’artista colta nell’atto creativo.

    Quest’opera, che sia o meno l’autoritratto della pittrice, rimane una traccia di immenso valore, testimonianza viva dell’arte di una donna che dimostrò di meritarsi, a pieno titolo, un posto tra i grandi artisti del Seicento.

    Bibliografia

    Roberto Longhi, Artemisia padre e figlia in l’Arte 1916 pp.245-314

    Anna Banti, Artemisia (1947), Milano, Bompiani, 1989 

    Maria Cristina Terzaghi,  Artemisia Gentileschi a Londra in Artemisia Gentileschi e il suo tempo (2016) 

    Dario Taraborrelli, L’Allegoria della Pittura di Artemisia Gentileschi a Hampton Court. Ritratto di una pittrice del XVII secolo. Tesi di laurea in storia dell’arte moderna, presso Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, facoltà di lettere e filosofia (2010).  

    https://www.rct.uk/collection/search#/1/collection/405551/self-portrait-as-the-allegory-of-painting-la-pittura
  • arte,  attualità,  rinascimento

    Raffaello Sanzio: la Fornarina e la Trasfigurazione

    La Trasfigurazione e la Fornarina sono due tra le opere più celebri di Raffaello Sanzio e sono le due tele più vicine alla sua morte. Scopriamo perchè!

    Roma. Era il 2 novembre di questo 2020 quando è venuto a mancare Gigi Proietti, un genio che per ironia della sorte, è morto il giorno del suo compleanno. Il 2 novembre, il giorno dei morti. 

    Roma. Era il 6 aprile 1520, cinquecento anni fa, quando è venuto a mancare Raffaello Sanzio, un altro genio, che l’ironia della sorte ha voluto morisse il giorno del suo compleanno. In quell’anno, guarda caso, venerdì santo.

    Le ultime opere di Raffaello

    In questo ultimo video della miniserie dedicata al divin pittore scopriamo due delle ultime opere di Raffaello: la Fornarina e la Trasfigurazione. Ci rifiuteremo inoltre di parlare di ‘fine’ di Raffaello, perché è proprio alla luce del percorso che abbiamo fatto che è possibile chiedersi: perché parlare di inizi (al plurale) e di fine (al singolare)?

    La morte di Raffaello Sanzio

    La morte di Raffaello fu la tragedia del 1520. Il pittore lasciò le sue spoglie divine per mostrarsi anch’egli soggetto all’azione della morte. Da quel giorno ebbe origine un processo di ‘canonizzazione’ artistica. Insomma, non condizioni migliori potevano attendersi coloro che trasformarono la storia di Raffaello in mito. Poiché il 6 aprile era anche la data, ricordata dai colti, dell’incontro di Petrarca con Laura, ma fu anche il giorno in cui ella morì, sempre di venerdì santo. 

    Tutto in qualche modo sarebbe tornato nelle narrazioni, mentre nella spettatrice silenziosa che Roma era la notizia si propagò in tempi lampo, trasmessa per lettere e per sonetti. Di giorno in giorno rimbombava per tutta Italia l’annuncio della prematura e già romanzata scomparsa. Raffaello morto lo stesso giorno di Cristo, e scrivevano: 

    «Perchè sorprendersi se tu moristi nel giorno in cui Cristo morì?

    Questi era il Dio della Natura, tu eri il Dio dell’arte»

    La Trasfigurazione di Cristo di Raffaello

    Ma veniamo alle opere. Giorgio Vasari racconta che il corpo di Raffaello fu portato nella sala ove il pittore stava terminando la Trasfigurazione di Cristo «la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a chiunque quivi guardava». Questa fu l’ultima opera di Raffaello, probabilmente terminata dai suoi allievi, come i numerosissimi altri progetti ai quali egli stava lavorando. Fu commissionata alcuni anni prima dal cardinale Giulio de’ Medici il quale aveva richiesto un’opera per la medesima chiesa narbonense a Sebastiano del Piombo: a quest’ultimo spettava il soggetto della Resurrezione di Lazzaro, mentre a Raffaello la Trasfigurazione di Cristo

    Come però riempire e conferire dinamismo ad un episodio così lirico? Come poter inserire nell’opera passioni e sentimenti umani senza togliere significato alla rivelazione divina?. Perché nella sfida, forse un po’ romanzata con il duo Michelangelo-Sebastiano del Piombo, Raffaello doveva catturare e stupire. Doveva, e questo ci piace, andare oltre.

    Descrizione dell’opera

    La trasfigurazione di Raffaello

    Il pittore fece allora ciò che meglio gli riusciva, disgiungere per congiungere, dividere per unire, realizzando una composizione bipartita e al medesimo tempo unica. Cristo domina il dipinto, risultando centro della parte superiore. Sole irradiante nel suo bianco splendente e incorniciato in questa nube che è luce e ombra. Un Cristo che si affida al cielo, con le mani levate. Ai lati l’apparizione di Mosè ed Elia nelle loro vesti scosse dal vento, nelle pose d’angeli senz’ali, con i volti rivolti al figlio di Dio. Due figure a sinistra, due santi, riescono a tenere gli occhi aperti e partecipare a quella visione, Felicissimo e Agapito oppure Giusto e Pastore. Spostandoci in basso un diaframma divide la scena, una cima di monte simile a grande cuscino erboso. Su questa sono distesi e accovacciati i tre apostoli, Giacomo, Pietro e Giovanni. Il primo chiuso nel terrore, gli altri travolti dalla luce.

    Scendendo poi dal monte Tabor il vangelo di Matteo narra dell’incontro di Gesù con una piccola folla di persone. Tra costoro un padre disperato per le condizioni del figlio, un fanciullo ossesso, epilettico. Ecco allora che le braccia scompostamente allargate del giovane sorretto dal padre, dialogano opponendosi con quelle del Cristo, dalle quali riceverà la salvezza. È questo giovane il centro compositivo della parte sottostante: a lui sono rivolti gli sguardi, e le dita. È la sua condizione a destare preoccupazione, tenerezza, impotenza, disperazione. Un’enciclopedia di moti dell’anima invade questa parte del dipinto, più terrena, più prossima allo spettatore.

    La luce nella Trasfigurazione

    La salvezza discende dall’alto e si manifesta con calma serafica in un dirompete bagliore. Sopra luci soffuse che si originano dalla nube. Sotto una luce più spigolosa e marcata che dà origine a un chiaroscuro colmo di pathos. Sullo sfondo, oltre il monte Tabor, un tramonto.

    La Fornarina di Raffaello Sanzio

    La Fornarina di Raffaello

    Un’altra opera, oltre alla Trasfigurazione che fu ritrovata nello studio di Raffaello dopo la sua morte, è il celebre ritratto di donna a mezzobusto passato alla nostra storia con il nome terreno di Fornarina. Si crede che Raffaello in questo dipinto ritrasse la donna amata, tale Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere. Eppure il termine fornarina inizia a comparire nei documenti solamente nel XVIII secolo. Osserviamo una donna reale sì, ma pure incarnazione di bellezza, un ritratto, ma perché non un’allegoria di amore? Potremmo scorgervi una Venere forse, seduta tra il mirto, pianta a lei sacra. In questa donna divina cosparsa di luce soffusa e colori perlacei, adorna di gioielli e veli di fine trasparenza, Raffaello lasciò il suo nome: Raphael Urbinas. 

    La Trasfigurazione e la Fornarina di Raffaello: gli inizi e le ‘fini’

    Gli inizi di Raffaello portarono a tutto ciò ed è inconcepibile parlare di fine. Per Raffaello, ma per ciascun uomo parlerei di fini. Tanti i progetti avviati e pensati ai quali i suoi allievi, tra i più celebri Giulio Romano e Giovan Francesco Pierini, diedero poi vita. Tante le idee, numerose le innovazioni, innumerevoli le figure che da allora in avanti cambiarono e plasmano oggi la vita delle persone. Le ‘fini’ dunque di Raffaello.

    Infine Roma, Raffaello e Gigi Proietti

    Gigi proietti al teatro globe

    Avevamo iniziato con le coincidenze. Concludiamo con un’analogia che coincidenza non è: l’amore di Roma per Gigi Proietti e le parole di coloro che raccontarono la morte di Raffaello:

    «La cui morte è doluto a tutti di Roma»

    «Con universal dolore di tutti»

    Quella Roma tanto amata da Raffaello da scrivere al papa queste parole:

    «Non debe, adonque Padre Santissimo, esser tra li ultimi pensieri di Vostra Santitate, lo haver cura che quello poco che resta di questa antica madre de la gloria e grandezza italiana…»

    Quella Roma che dona e che toglie. Un po’ come questo 2020. Però scusate, Gigi glie lo avrebbe detto, col sorriso ma, a questo 2020 glie lo avrebbe detto: …nun me rompe er ca’!

    Ciao Raffaello! Ciao Gigi! Arrivederci!

  • arte,  Donne d'arte,  Novecento

    Margherita Sarfatti: la donna del Novecento italiano

    Mario Sironi tra il 1916-17 ritrasse, in atteggiamento intimo e famigliare, Margherita Sarfatti. Donna colta, poliglotta , emancipata e contraddistinta da una curiosità intellettuale fuori dal comune, curiosità, che la rese la donna del Novecento italiano.  

    Margherita Grassini Sarfatti

    Margherita Grassini nacque l’8 aprile 1880 in una ricca famiglia ebrea e si formò con i migliori maestri: Antonio Fradeletto, Pompeo Momenti e Pietro Orsi. Con essi ebbe il privilegio di instaurare un vero dialogo culturale, formando un suo pensiero critico, politico e artistico. 

    Giovanissima, a soli diciotto anni, incontrò un altro protagonista della Venezia semita, Cesare Sarfatti, avvocato e impegnato attivamente nel socialismo. Contro il parere dei genitori di lei, i due si sposarono nel 1898.

    La carriera di giornalista

    Insieme, decisero di trasferirsi a Milano (1902) in via Brera 19, ed è proprio in questa città, nella quale aleggiava un fermento culturale e sociale, che ebbe inizio la carriera della giovane donna. Fin da subito, sotto la guida del marito, iniziò a scrivere per l’Avanti della domenica, la versione socialista del borghese Corriere, battendosi per l’uguaglianza e la parità di genere e proponendo, quello che venne definito, un femminismo pratico. Dal 1909 fu nominata responsabile della rubrica di critica d’arte dell’Avanti! Giornale socialista

    Sarfatti Iniziò a farsi largo nell’ambiente culturale milanese, frequentando il salotto socialista per eccellenza guidato dalla signora Anna Kuliscioff e Filippo Turati. 

    Da via Brera i coniugi si trasferirono in corso Venezia 93. Qui trovarono un vicino di casa non di poco conto: Filippo Tommaso Marinetti. Fu proprio in questi anni (1910) che egli insieme a Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Gino Severini e Giacomo Balla diedero vita ad un’arte intesa come manifesto di profondo sentimento di malcontento e rivolta: il Futurismo. 

    Umberto Boccioni, Controluce (1916) Collezione Sarfatti

    Sarfatti, entusiasta sostenitrice di questa nuova tendenza artistica, decise di mettere a disposizione il suo salotto al civico 93 per riunire “fra mobili di stile, quadri e oggetti d’arte i più importanti artisti e intellettuali milanesi nelle serate del mercoledì.

    L’entusiasmo della donna per l’arte futurista si placò nel 1911 quando, di ritorno da Parigi, Umberto Boccioni contaminò il suo modo di dipingere con le sperimentazioni cubiste di Picasso. Questo fatto fu interpretato dalla scrittrice come una perdita da parte dell’arte italiana di visione personale e autonomia. 

    L’incontro con Mussolini e i venti di guerra

    Nel 1912 l’incontro con Mussolini non implicò solamente l’inizio di un legame sentimentale, ma l’avvio di un effettivo sodalizio politico e culturale. Entrambi provenienti da ambienti socialisti, se ne allontanarono per fondare la rivista il Popolo d’Italia, di cui la Sarfatti fu redattrice per la sezione letteraria e artistica. Di lì a poco scoppiò la guerra. 

    Seguirono anni duri, contraddistinti dalla perdita al fronte dell’amato figlio Roberto e dell’amico fraterno Umberto Boccioni. La collaborazione avviata con Mussolini la portò ad essere una delle figure più attive nella fondazione del Partito Nazionale Fascista (1921).

    Il dolore e la paura innescati dalla guerra generarono nel mondo culturale l’esigenza di riprendere la grandezza della tradizione artistica del passato e renderla eterna. Fu dunque auspicato e sempre più invocato da alcuni un “ritorno all’ordine”, un’arte che potesse parlare agli uomini, al popolo.

    Novecento

    È proprio in questo clima di affermazione del bello e di armonia, contrapposte alle dissonanze dell’arte cubista, espressionista e futurista che, Margherita Sarfatti, si farà portavoce di un gruppo di sette artisti: Mario Sironi, Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Pietro Marussig. In un primo momento anche Ubaldo Oppi prese parte a questi artisti che si incontrarono nella galleria di Lino Pesaro a Milano, per unirsi sotto il nome di Novecento (1922).

    Sarfatti riconosceva in questi artisti il ductus di un’arte moderna originata dalla classicità, ma rinnovata e mai sterile, rivolta verso “la più vera delle verità, la bellezza”. 

    La Biennale del 1924

    Così scrisse di loro alla Biennale di Venezia del 1924:

    Questi nostri pittori, si può obiettare, non toccano ancora il punto dove lo sforzo dell’arte si dissolve e scompare tutto nella magia evocatrice delle immagini e dei sentimenti. A tale vertice non è dato giungere d’un tratto. La preoccupazione della tecnica, come di un mezzo e di un linguaggio ancora troppo greve, in parte soverchia – è vero – la cura delle cose da dire: ma solo attraverso la conquista di un linguaggio tecnico nobilmente ordinato e perspicuo, i sentimenti e i concetti possono trovare espressioni di umanità e di limpida bellezza” 

    Divenuta la signora di Milano, ella s’impegnò ancora di più sul fronte politico nella propaganda fascista. Lo fece come direttrice della rivista di partito Gerarchia, attraverso la pubblicazione di articoli e discorsi mussoliniani per la stampa estera, e la scrittura della biografia DUX (1925). In ambito artistico, nonostante le critiche ricevute alla Biennale del 1924, si impegnò in una vera e propria campagna di “colonialismo estetico”, aprendo le porte di Novecento ad un ampio numero di artisti della nuova generazione.

    Novecento italiano e la rottura con Mussolini

    Manifesto mostra Novecento italiano (1926)

    Furono invitati ad esporre al Palazzo della Permanente di Milano (1926) centoquattordici artisti. Questo fu un importante evento artistico e politico, al quale partecipò anche Benito Mussolini come presidente onorario del Comitato. Il movimento Novecento sarà di qui in poi Novecento Italiano. 

    Attraverso questo Sarfatti mirò ad esprimere i valori del nazionalismo fascista. Propose e aspirò non tanto a “un’arte per l’arte”, bensì a un’arte che potesse essere strumento di propaganda politica ed essa stessa incarnare i valori del fascismo. Suo malgrado Mussolini non era della stessa opinione. Con una lettera del 1929 ripudiò tale connessione politico-artistica e rese chiara in maniera ufficiale la rottura con la donna che fino a quel momento fu la sua più grande sostenitrice e alleata. 

    La lettera di Mussolini

    Lettera di Mussolini a Margherita Sarfatti

    «Gentilissima Signora,
    leggo un articolo nel quale ancora una volta voi tessete l’apologia del cosiddetto ’900, facendovi alibi del Fascismo e del sottoscritto. Lo disapprovo nella maniera più energica e di tale mio sentimento giungerà segno oggi stesso ai direttori dei due giornali. Questo tentativo di far credere che la proiezione artistica del Fascismo sia il vostro ’900, è ormai inutile ed è un trucco! Il Fascismo più prudente e meno messianico, ha ipotecato soltanto 60 anni, non tutto il secolo! Del quale ancora 71 anni sono da trascorrere. Antipatico è poi, l’attacco evidente ad un ministro in carica, attacco che precede la solita sviolinata nei miei riguardi; sviolinata che voi, sopratutto voi, vi dovreste perennemente proibire. Poiché voi non possedete ancora l’elementare pudore di non mescolare il mio nome di uomo politico alle vostre invenzioni artistiche o sedicenti tali, non vi stupirete che alla prima occasione e in un modo esplicito, io preciserò la mia posizione e quella del Fascismo di fronte al cosiddetto ’900 o a quel che resta del fu ’900. 

    Distinti Saluti Mussolini
    Roma 9 luglio 1929-VII »

    Margherita Sarfatti, l’America, l’esilio e la morte

    Sarfatti, allontanandosi a sua volta dall’ideologia fascista sempre più vicina alla Germania hitleriana, iniziò ad essere tagliata fuori dagli ambienti politici e culturali, mentre il suo salotto in corso Venezia divenne luogo di incontro per numerosi antifascisti. 

    Nel 1934 partì alla volta degli Stati Uniti dove scrisse l’America ricerca della felicità (1937). La promulgazione delle leggi razziali (1938) la costrinse fu all’esilio fino al 1947. Ritornata in Italia si ritirò nella sua casa a Cavallasca, il Soldo, luogo d’ispirazione per molti artisti come : Umberto Boccioni, Mario Sironi, Giuseppe Terragni, Ada Negri, Riccardo Bacchelli, Alfredo Panzini, e Gabriele d’Annunzio. 

    Qui nei suoi ultimi anni solitari Margherita scrisse un’autobiografia intitolata “Acqua Passata”(1955) scegliendo di omettere dalla narrazione il rapporto sentimentale con Mussolini.

    Il 30 ottobre 1961 la grande signora del Novecento, che tanto fece parlare di sé, morì in silenzio, dimenticata e all’ombra di un rapporto sentimentale che la fa tutt’oggi ricordare come “l’altra donna di Mussolini”.

    Margherita Sarfatti, 1925-1930.Mart, Archivio del’900, Fondo Sarfatti.

  • arte,  attualità,  Lezioni americane

    LA VISIBILITÀ: un memo per il nostro tempo. Da Calvino, per Dante e Bernini.

    La fantasia è un posto dove ci piove dentro. È questa un’affermazione che potrebbe apparire strana, eppure sono parole di Dante Alighieri:

    «Poi piovve dentro a l’alta fantasia» (canto XVII del Purgatorio) 

    La visibilità secondo Dante

    Nella Divina Commedia attraverso il suo viaggio ultraterreno, Dante ci fa rivivere i suoi incontri e i dialoghi con le anime che incontra lungo il cammino. Ma come descrivere anime senza corpo? Dapprima le delinea quasi come bassorilievi, poi quali forme sfuggenti percepibili non più bene alla vista, quanto piuttosto all’udito; infine come immagini mentali piovute, appunto, dall’alto. L’immaginazione, e cioè il dono di rendere visibili i pensieri, viene secondo il poeta da Dio, e fa sì che «Om non s’accorge perchè dintorno suonin mille tube».

    La cosa veramente senza precedenti è il fatto che il Dante nella Commedia, il Dante personaggio, rifletta sulla parte visuale della fantasia, chiamando in causa il Dante poeta, il quale immagina e scrive e, in questo momento, immagina e scrive di se stesso personaggio che immagina. 

    Due inversi processi…

    Ci sono due inversi processi per la visibilità, due processi immaginativi che riguardano in particolar modo la letteratura ma che possono essere applicati ad ogni altra forma d’arte. L’uno si diparte dall’immagine mentale per poi concretizzarsi nell’espressione verbale, orale, scritta, pittorica o come nel caso che vedremo oggi, scultorea. L’altro si diparte dalla parola o dall’opera per arrivare all’immagine o a nuove immagini. In altre parole l’uno è quello dello scrittore o dell’artista che immagina e cerca poi le parole e le tecniche esatte per restituire un’immagine quanto più verosimile a quella formatasi nel suo io, nella sua mente.

    L’altro è quello del lettore o dell’osservatore che ha la libertà ‘sorvegliata’ di partire da quelle lettere nere su fondo bianco o da un taglio di Fontana, una plastica di Burri, per costruire un realtà mentale e immergercivisi.

    Per il secondo di questi processi possiamo pensare al ‘cinema’ che si accende nella nostra mente durante la lettura di un libro o l’ascolto di una narrazione.

    Un esempio nell’opera di Sant’Ignazio di Loyola

    Immaginiamo allora di leggere questa parole tratte dagli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola

    «Il primo punto è vedere le persone, le une e le altre; e prima quelle sulla faccia della terra in tutta la loro varietà di abiti e di gesti, alcuni che piagono, altri che ridono, alcuni in pace altri in guerra, alcuni che nascono e altri che muoiono. Poi vedere e considerare le tre persone persone divine come sul loro soglio regale o trono della loro divina maestà, come guardando tutta la faccia e la rotondità della terra e tutte le genti in tanta cecità e come muoiono e van giù nell’inferno».

    Questo è un esempio bellissimo di richiamo all’immaginazione che ci porta ad un dialogo quasi dovuto con l’arte del medesimo periodo. Avete contato quante volte in due frasi Sant’Ignazio ha scritto la parola tutto? Ecco: lo scritto rimane limitato nei suoi segni, ma può suggerire e spingere ad una complessità e ad una varietà tale da risultare indeterminate. Nessuno leggerà una frase di un libro immaginandola nel medesimo modo. Ignazio di Loyola spinge il fedele «a dipingere lui stesso sulle pareti della propria mente gli affreschi gremiti di figure».

    E ora Bernini con il suo capolavoro Apollo e Dafne

    Ma certo Dante e Ignazio di Loyola sono ispirati da Dio, e me cojoni, magari tutti! Come anche il primo pittore iconografo della Chiesa: San Luca (secondo la leggenda).

    Eppure oggi ci soffermiamo su  un artista facendo un salto nel Seicento. Un genio del Barocco, uno dei momenti più felici per l’immaginazione artistica: Gian Lorenzo Bernini. C’è nel Bernini scultore un rapporto quanto mai perentorio, immediato tra immaginazione e forma. Chissà dove avrà letto di Dafne e Apollo, chissà quante volte creò nella sua testa quella composizione. Certo, non avrebbe potuto pensare una realizzazione migliore di quell’opera.

    La corsa del giovane apollo perdutamente innamorato della ninfa è una ricerca spasmodica, incauta e sconosciuta, perchè amore è mistero, pulsione. Apollo poggia su un piede solo si protende verso Dafne cingendo il suo grembo. E se la mano del Dio michelangiolesco infondeva lo spirito nell’uomo, il tocco dell’amore cieco di Apollo dà il via alla metamorfosi: Dafne chiede a suo padre il fiume Penèo di dissolvere la sua forma. Scendendo dall’ombelico le linee delle gambe della ninfa si fondono con la corteccia tramutandosi in un albero quanto mai suadente. Dalle dita dei piedi sgorgano radici che penetrano nel terreno.

    In alto il dramma della giovane che vuole sottrarsi a quell’amore cieco: il grido di lei e le braccia frondose che si rivolgono al cielo in cerca di luce e di salvezza. Bernini scrive sul marmo un attimo di quella storia, un momento di quella metamorfosi. Già metamorfosi… cambiamento. Quale paradosso scolpire sul marmo una metamorfosi, che follia scrivere su carta o dipingere su tela realtà mutevoli.

    Ecco allora che «l’immaginazione, usata come strumento di conoscenza da alcuni, come identificazione con l’anima del mondo da altri, risulta essere anche un repertorio del potenziale». Un vasto golfo o mondo, diceva Giordano Bruno dello spiritus phantasticus, mai saturabile di forme e di immagini. 

    Questo è il motivo per il quale l’arte avrà sempre un futuro, ecco perchè la letteratura, la poesia potranno avere sempre la speranza di guardare avanti. Questo mondo, questo golfo, sono via imprescindibile per qualsivoglia forma di conoscenza.

    L’immaginazione oggi

    E tuttavia, quale ruolo ha in questo golfo fantastico l’immaginario indiretto? Cioè l’insieme di immagini che la società e la cultura di massa ci propone? E soprattutto, si chiedeva Calvino «quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la civiltà dell’immagine? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in una società sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?».

    Pensiamo anche semplicemente alla vita e alla cultura dei nostri nonni, il quale patrimonio visivo era costituito dalle esperienze dirette e da un ridotto repertorio di immagini derivanti dalla cultura. Da qui nasceva la possibilità di dare forma ai propri miti personali. Oggi siamo invece sommersi di immagini, da una quantità tale di immagini che probabilmente nemmeno Calvino avrebbe mai immaginato. Pensiamo a quanto l’immagine preconfezionata predomini oramai sulla scrittura: non leggiamo più, comunichiamo per foto o audio. Gran parte delle immagini che ci troviamo di fronte sono inoltre ridotto all’osso, semplificate, mono-messaggio. Le immagini complesse non funzionano!

    In tutto ciò è sempre più difficile che una figura, un progetto, un’idea, acquistino rilievo. 

    Stiamo correndo seriamente il rischio di perdere la facoltà di ragionare per immagini, di chiudere gli occhi e vedere e immaginare, non solamente fantasticare, bensì costruire. Forse, e dico forse, a noi consumatori e produttori di immagini del nuovo millennio, spetta l’arduo compito di riscoprire questo valore imparando di nuovo ad immaginare veramente (perché non pensare ad una pedagogia dell’immaginazione?), facendo ben attenzione alle immagini e anche al mezzo che scegliamo. Perché il mezzo non è tutto, ma è molto.

    Carta, tela e marmo ci arrivano dal passato e si proiettano nel futuro…chissà se potranno dire altrettanto dei nostri schermi!

    Italo Calvino