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    Il padiglione Italia per Expo 2020 Dubai: quale bellezza?

    BEAUTY CONNECTS PEOPLE

    Il padiglione Italia per Expo 2020 Dubai: un crocevia di esperienze, relazioni, discipline e competenze che, tutte insieme tendono alla bellezza. Ma, quale bellezza?

    Quale bellezza?

    Quale bellezza unisce le persone?

    È su questa domanda che ci giochiamo non solo e non tanto il successo ad Expo 2020 Dubai, ma il futuro di un intero paese (e se vogliamo dell’umanità) che, se non si volge con sguardo rinnovato allo studio e al sacrificio dai quali germogliano scienza e cultura, è destinato a galleggiare sulla superficie di un bello circoscritto ai quadrati di instagram.

    La scelta della parola Bellezza affonda le sue radici nei significati originari del termine ‘bellus’ (forma antica di diminutivo di ‘bonus’). Bello è bene e verità secondo l’accezione platonica poi ripresa dal cristianesimo e da esso posta a fondamento di gran parte del patrimonio storico artistico di cui ci sentiamo ‘figli’. 

    Una bellezza ‘trinitaria’ dunque, che vive e si alimenta della complessità, dell’incontro, di continue e costanti connessioni, di discussioni e passi verso l’oltre. Una bellezza che ha a cuore la profondità e necessita di tempo, di sacrificio e di relazione. 

    Alberto Burri, cretto nero

    Questo è ciò a cui tendono, per vie e ambiti differenti, le opere, le creazioni, le riproduzioni e le idee che costellano il percorso del padiglione Italia a Expo 2020 Dubai.

    Dal sipario di corde realizzate con plastica riciclata, alla quasi perfezione dell’orologio atomico; dall’inedito sguardo del David di Michelangelo riprodotto magistralmente in scala 1:1, al cretto e ai cellotex di Alberto Burri

    Infine, quindi, una bellezza consapevole, che renda vibratile il cuore come le corde che attorniano il padiglione mosse dal caldo vento di Dubai. Perchè bello è ciò che dèsta l’animo.

    Una bellezza che con questa consapevolezza e queste certe radici, guardi al gigante futuro con lo sguardo giovane, sfidante e deciso del David.

    E mi pare che, con la recente notizia di voler destinare lo spazio del padiglione alla funzione di centro di restauro altamente specializzato per le opere dei paesi in guerra, stiamo già risollevando lo sguardo!


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    Dante d’arte: Inferni, Purgatori e Paradisi in scena alla Proloco di Petrignano

    Domenica 29 agosto presso il parco della Proloco di Petrignano d’Assisi è iniziato il cammino Dante d’arte che condurrà alla scoperta delle tre Cantiche dantesche. Nelle tre serate, a cura del team di esperti d’arte di Parte tutto da qui e promosse dalla Proloco, saranno raccontati alcuni personaggi, paesaggi, terzine dantesche attraverso gli occhi degli artisti, che a Dante e alla sua Commedia si ispirarono.

    Dante con i suoi versi sarà il Virgilio, la guida di questi incontri:

    «Or va, ch’un sol volere è d’ambedue: tu duca, tu segnore e tu maestro»

    Non unica guida, poichè ci si addentrerà nella Commedia attraverso le immagini. Opere, miniature, storie che dal Trecento in poi hanno incrociato, tentato di spiegare, approfondito, i versi delle tre Cantiche.

    Poesia e Arte saranno le scarpe che verranno calzate per compiere alcuni passi nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso danteschi e in concerto nei più diversi inferni, purgatori e paradisi umani. 

    Dante d'arte

    Gli Inferni di Dante, siamo giunti a ‘riveder le stelle’!

    Gli Inferni di Paolo e Francesca, di Farinata degli Uberti e di Pier delle Vigne hanno guidato il percorso attraverso gli inferi, accompagnati dalle illustrazioni senza tempo di Gustave Dorè, dalla plasticità della scultura di Rodin, dalle opere di Gaetano Previati e molti altri. Un cammino ascoso che grazie alla grande partecipazione di pubblico e alle guide Giulia Bertuccioli, Valentina Fabbri, Nicolò Cerasa, Michelangelo Matilli e Nadia Cesaretti ha condotto i presenti ‘a riveder le stelle’.

    Domenica 5 settembre la prossima tappa: i Purgatori

    Domenica 5 settembre ulteriori passi saranno compiuti. Stesso luogo ma diversa ambientazione: il Purgatorio dantesco. Nuovi personaggi, nuove immagini, colori finalmente e armonie differenti caratterizzeranno questa seconda parte del viaggio.

    Due nuove voci, infine, si aggiungeranno al team: la professoressa Beatrice Biancardi e il professor Loris Nobetti.

    L’incontro inizierà alle ore 21:00 e si terrà all’aperto (tempo permettendo).

    Dante d'arte

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    La Pietà di Michelangelo

    A soli 23 anni Michelangelo Buonarroti realizzò uno dei più importanti capolavori della storia: la Pietà.

    La commissione dell’opera al giovane Michelangelo

    Le opere nascono in un contesto e risulta solitamente complesso ricostruirlo a posteriori. Lo è anche per la Pietà. Il celebre gruppo scultoreo fu realizzato dal giovane Michelangelo giunto a Roma su commissione di Jean de Bilhères-Lagraulas, divenuto cardinale nel 1593 e nominato da papa Alessandro VI. Il soggetto dell’opera, che doveva decorare il sepolcro del committente, fu sin da subito messo in chiaro: 

     «Una Pietà di marmo, cioè una Vergine Maria vestita con un Cristo morto nudo in braccio».

    La pietà di Michelangelo San Pietro

    Chi mai si sarebbe aspettato che da un blocco di marmo di carrara, appositamente scelto dal Buonarroti e fatto arrivare nella città pontificia, potesse prendere vita un simile capolavoro. 

    Descrizione dell’opera

    A colpire fin da subito è il contrasto deciso eppure armonico tra la veste della Vergine, le pieghe del sudario e la carne morta del Cristo, gelida e liscia. Ci appare un corpo appena scalfito dai segni dei segni della croce in una perfezione apparente che lo avvolge e lo trasfigura. La gravità della morte lo chiama alla terra, lo porta al basso, all’abbandono. Maria si interpone, si mette in mezzo tra la roccia e il Cristo. Le gambe della Vergine lo accolgono nuovamente, il suo braccio destro lo sorregge con sforzo cercando di riportarlo a sé e opponendosi a quell’abbandono. È il braccio disperato della madre. Dalla parte opposta una mano si apre al cielo. Sembra il gesto titubante delle tante annunciazioni: una sorta di… fa tu!? sia fatta la tua volontà. E’ il braccio di Maria sposa di Cristo. 

    Una Maria ‘coetanea’ di Michelangelo

    Quella Maria così giovane che fin dai primi anni destò stupore. Condivi, il biografo del Buonarroti, scrisse: “La castità, la santità e l’incorruzione preservano la giovinezza”. È la Maria vergine e madre, sposa di Cristo e simbolo della chiesa, una chiesa fondata sulla roccia. È la Maria del concepimento di Cristo, che Michelangelo raffigura come una sua coetanea.

    La pietà di Michelangelo Particolare del viso
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    La firma e altri particolari

    Michelangelo firmò, unica tra le altre, questa opera. Lo fece sulla cintola che separa i seni della Vergine: «MICHAEL ANGELUS BONARROTUS FLORENTINUS FACIEBAT». 

    Alcuni particolari ci restituiscono l’idea di estrema finitezza dell’opera, che la rendono uno tra i principali capolavori dell’arte. La politura del marmo rifinito in ogni suo angolo; la verosimiglianza del velo di pelle che ricopre l’anatomia del corpo, le vene, i muscoli; l’armonia della mano con le dita lasciatesi separare dalla piega della veste.

    La Pietà particolare della mano

    Il contesto perduto

    Oggi l’opera si trova nella prima cappella della navata Nord della Basilica. Ma non esistendo negli ultimi anni del Quattrocento la basilica che oggi vediamo, dovremmo chiederci dove essa fosse collocata, in quale prospettiva era vista, chi poteva ammirarla. Il committente Jean de Bilhere Lagraulas era uno dei più importanti uomini della Roma dell’epoca e la sua sepoltura era prevista nel mausoleo di Petronilla, la Capella dei Re di Francia in vaticano. Un luogo scomparso con la costruzione della nuova basilica. Un altro contesto perduto, che all’opera avrebbe aggiunto significati ormai recuperabili solo parzialmente. 

    Basilica di San PIetro pianta
    Il Mausoleo onoriano, o rotonda di Santa Petronilla è l’edificio a pianta circolare tangente il transetto dell’antica basilica di San Pietro.

    Una sintesi di qualsivoglia pietà!

    Certamente questa pietà era una statua sepolcrale, un’arte che parla di morte e in essa di vita; di abbandono, ma anche di resurrezione; di dolore, ma soprattuto di fede. Nella Pietà di Michelangelo percepiamo come non mai questo duplice significato, questa energia opposta, questo ossimoro di sentimenti: su questo marmo troviamo il braccio della madre che porta a sé e allo stesso tempo quello della Maria che offre suo figlio morto abbandonandosi alla fede nella speranza.

    La pietà di Michelangelo è una sintesi di qualsivoglia pietà. 

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    Raffaello Sanzio: la Fornarina e la Trasfigurazione

    La Trasfigurazione e la Fornarina sono due tra le opere più celebri di Raffaello Sanzio e sono le due tele più vicine alla sua morte. Scopriamo perchè!

    Roma. Era il 2 novembre di questo 2020 quando è venuto a mancare Gigi Proietti, un genio che per ironia della sorte, è morto il giorno del suo compleanno. Il 2 novembre, il giorno dei morti. 

    Roma. Era il 6 aprile 1520, cinquecento anni fa, quando è venuto a mancare Raffaello Sanzio, un altro genio, che l’ironia della sorte ha voluto morisse il giorno del suo compleanno. In quell’anno, guarda caso, venerdì santo.

    Le ultime opere di Raffaello

    In questo ultimo video della miniserie dedicata al divin pittore scopriamo due delle ultime opere di Raffaello: la Fornarina e la Trasfigurazione. Ci rifiuteremo inoltre di parlare di ‘fine’ di Raffaello, perché è proprio alla luce del percorso che abbiamo fatto che è possibile chiedersi: perché parlare di inizi (al plurale) e di fine (al singolare)?

    La morte di Raffaello Sanzio

    La morte di Raffaello fu la tragedia del 1520. Il pittore lasciò le sue spoglie divine per mostrarsi anch’egli soggetto all’azione della morte. Da quel giorno ebbe origine un processo di ‘canonizzazione’ artistica. Insomma, non condizioni migliori potevano attendersi coloro che trasformarono la storia di Raffaello in mito. Poiché il 6 aprile era anche la data, ricordata dai colti, dell’incontro di Petrarca con Laura, ma fu anche il giorno in cui ella morì, sempre di venerdì santo. 

    Tutto in qualche modo sarebbe tornato nelle narrazioni, mentre nella spettatrice silenziosa che Roma era la notizia si propagò in tempi lampo, trasmessa per lettere e per sonetti. Di giorno in giorno rimbombava per tutta Italia l’annuncio della prematura e già romanzata scomparsa. Raffaello morto lo stesso giorno di Cristo, e scrivevano: 

    «Perchè sorprendersi se tu moristi nel giorno in cui Cristo morì?

    Questi era il Dio della Natura, tu eri il Dio dell’arte»

    La Trasfigurazione di Cristo di Raffaello

    Ma veniamo alle opere. Giorgio Vasari racconta che il corpo di Raffaello fu portato nella sala ove il pittore stava terminando la Trasfigurazione di Cristo «la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a chiunque quivi guardava». Questa fu l’ultima opera di Raffaello, probabilmente terminata dai suoi allievi, come i numerosissimi altri progetti ai quali egli stava lavorando. Fu commissionata alcuni anni prima dal cardinale Giulio de’ Medici il quale aveva richiesto un’opera per la medesima chiesa narbonense a Sebastiano del Piombo: a quest’ultimo spettava il soggetto della Resurrezione di Lazzaro, mentre a Raffaello la Trasfigurazione di Cristo

    Come però riempire e conferire dinamismo ad un episodio così lirico? Come poter inserire nell’opera passioni e sentimenti umani senza togliere significato alla rivelazione divina?. Perché nella sfida, forse un po’ romanzata con il duo Michelangelo-Sebastiano del Piombo, Raffaello doveva catturare e stupire. Doveva, e questo ci piace, andare oltre.

    Descrizione dell’opera

    La trasfigurazione di Raffaello

    Il pittore fece allora ciò che meglio gli riusciva, disgiungere per congiungere, dividere per unire, realizzando una composizione bipartita e al medesimo tempo unica. Cristo domina il dipinto, risultando centro della parte superiore. Sole irradiante nel suo bianco splendente e incorniciato in questa nube che è luce e ombra. Un Cristo che si affida al cielo, con le mani levate. Ai lati l’apparizione di Mosè ed Elia nelle loro vesti scosse dal vento, nelle pose d’angeli senz’ali, con i volti rivolti al figlio di Dio. Due figure a sinistra, due santi, riescono a tenere gli occhi aperti e partecipare a quella visione, Felicissimo e Agapito oppure Giusto e Pastore. Spostandoci in basso un diaframma divide la scena, una cima di monte simile a grande cuscino erboso. Su questa sono distesi e accovacciati i tre apostoli, Giacomo, Pietro e Giovanni. Il primo chiuso nel terrore, gli altri travolti dalla luce.

    Scendendo poi dal monte Tabor il vangelo di Matteo narra dell’incontro di Gesù con una piccola folla di persone. Tra costoro un padre disperato per le condizioni del figlio, un fanciullo ossesso, epilettico. Ecco allora che le braccia scompostamente allargate del giovane sorretto dal padre, dialogano opponendosi con quelle del Cristo, dalle quali riceverà la salvezza. È questo giovane il centro compositivo della parte sottostante: a lui sono rivolti gli sguardi, e le dita. È la sua condizione a destare preoccupazione, tenerezza, impotenza, disperazione. Un’enciclopedia di moti dell’anima invade questa parte del dipinto, più terrena, più prossima allo spettatore.

    La luce nella Trasfigurazione

    La salvezza discende dall’alto e si manifesta con calma serafica in un dirompete bagliore. Sopra luci soffuse che si originano dalla nube. Sotto una luce più spigolosa e marcata che dà origine a un chiaroscuro colmo di pathos. Sullo sfondo, oltre il monte Tabor, un tramonto.

    La Fornarina di Raffaello Sanzio

    La Fornarina di Raffaello

    Un’altra opera, oltre alla Trasfigurazione che fu ritrovata nello studio di Raffaello dopo la sua morte, è il celebre ritratto di donna a mezzobusto passato alla nostra storia con il nome terreno di Fornarina. Si crede che Raffaello in questo dipinto ritrasse la donna amata, tale Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere. Eppure il termine fornarina inizia a comparire nei documenti solamente nel XVIII secolo. Osserviamo una donna reale sì, ma pure incarnazione di bellezza, un ritratto, ma perché non un’allegoria di amore? Potremmo scorgervi una Venere forse, seduta tra il mirto, pianta a lei sacra. In questa donna divina cosparsa di luce soffusa e colori perlacei, adorna di gioielli e veli di fine trasparenza, Raffaello lasciò il suo nome: Raphael Urbinas. 

    La Trasfigurazione e la Fornarina di Raffaello: gli inizi e le ‘fini’

    Gli inizi di Raffaello portarono a tutto ciò ed è inconcepibile parlare di fine. Per Raffaello, ma per ciascun uomo parlerei di fini. Tanti i progetti avviati e pensati ai quali i suoi allievi, tra i più celebri Giulio Romano e Giovan Francesco Pierini, diedero poi vita. Tante le idee, numerose le innovazioni, innumerevoli le figure che da allora in avanti cambiarono e plasmano oggi la vita delle persone. Le ‘fini’ dunque di Raffaello.

    Infine Roma, Raffaello e Gigi Proietti

    Gigi proietti al teatro globe

    Avevamo iniziato con le coincidenze. Concludiamo con un’analogia che coincidenza non è: l’amore di Roma per Gigi Proietti e le parole di coloro che raccontarono la morte di Raffaello:

    «La cui morte è doluto a tutti di Roma»

    «Con universal dolore di tutti»

    Quella Roma tanto amata da Raffaello da scrivere al papa queste parole:

    «Non debe, adonque Padre Santissimo, esser tra li ultimi pensieri di Vostra Santitate, lo haver cura che quello poco che resta di questa antica madre de la gloria e grandezza italiana…»

    Quella Roma che dona e che toglie. Un po’ come questo 2020. Però scusate, Gigi glie lo avrebbe detto, col sorriso ma, a questo 2020 glie lo avrebbe detto: …nun me rompe er ca’!

    Ciao Raffaello! Ciao Gigi! Arrivederci!

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    La Stanza di Eliodoro: gli affreschi di Raffaello per Giulio II

    La realtà che Raffaello riportò sulle pareti della stanza della Segnatura con la sua filosofica pace, finì per assumere un’aura quasi utopistica. Mentre ben altre storie si prospettavano per il nuovo importante lavoro affidatogli da Giulio II. Già infatti dal luglio del 1511, il pontefice commissionò al Divin pittore la decorazione della stanza adiacente, oggi conosciuta come stanza di Eliodoro. Entriamo allora insieme in questo nuovo ‘microcosmo’, lasciandoci alle spalle l’allegoria ed entrando nella storia.

    In questa stanza torna potentemente sulla scena la pittura storica e lo fa portando con sé le innovazioni e le idee del proprio tempo. Quelli che vediamo raffigurati sono quattro eventi tratti dalla storia della Chiesa. Gli accadimenti sono tutti accomunati dall’intervento risolutivo di Dio che corre in soccorso dell’ecclesia, del popolo dei fedeli. C’è però un’ulteriore costante: la presenza papale. Questa, fa sì che piani temporalmente distinti vengano raffigurati sulla medesima superficie, in una sorta di interferenza del presente con il passato. Si infrange, in altre parole, quel sottile velo che esiste tra storia e illusione, tra realtà e fantasia.

     

    La cacciata di Eliodoro dal tempio nella Stanza di Eliodoro

    Siamo nel racconto tratto dal libro dei Maccabei, nel quale il ministro Eliodoro mandato dal suo re tenta di impossessarsi del tesoro depositato dagli orfani e dalle vedove nel tempio di Gerusalemme. Le azioni di Eliodoro sono attorniate, nella sacra scrittura, da un moto continuo e multiforme di disperazione, angoscia e preghiera che pervade tutta la popolazione e i sacerdoti stessi. Raffaello riportò tutto questo sulla parete, facendo trasparire i diversi moti dell’animo, e contrapponendo al popolo disperato di vedove e orfani, la preghiera calma e ricolma d’angoscia del sommo sacerdote. Un’opposizione che risulta essere didascalica, come se l’artista volesse guidare l’occhio alla soluzione cristiana della preghiera, che tutto può.

    Lo scorcio magnificamente impostato sulla donna inginocchiata, che non è più figura di donna, ma è movimento, è scena, è emozione, finisce per guidare l’occhio al centro della scena, lì dove una luce viene dall’alto.Come a dire «Un’aiuto verra sempre dato da Hogwarts a chi se lo merita»…scusate! quello era altro, ma il concetto è lo stesso.

    Sulla destra, tornando in primo piano, osserviamo la carnalità dell’intervento divino in questo destriero con il cavaliere e i due uomini forzuti (magnificamente descritti nelle scritture). Eliodoro è messo a terra e sconfitto.

    A questo spettacolo assiste assorto dalla sua portantina, e quasi in ombra, papa Giulio II, colui che per primo, chiamato a guidare la chiesa in tempi difficili confida nella preghiera e implora un aiuto dal cielo. L’immagine del papa, le gesta e le preoccupazioni di un pontificato vengono portate sulle spalle ed elevate sulla scena dall’arte: Raffaello e Marcantonio Raimondi. 

     

    La messa di Bolsena e il miracolo eucaristico nella Stanza di Eliodoro

    Ma veniamo alla parete successiva sulla quale fu raffigurata la Messa di Bolsena. Un evento risalente al 1263, quando un sacerdote boemo dubitante del mistero della transustanziazione (la trasformazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo), fu costretto a ricredersi alla vista del sangue sgorgante dall’ostia che macchiò il corporale.

    Raffaello studiò una pedana con altare,  attorniati da un coro ligneo. Affrescò sulla parte sinistra della parete la rievocazione storica dell’accaduto con l’ecclesia in trepidazione per il miracolo. Un vento dà vitalità alle fiaccole e alle vesti candide dei chierichetti. Sul lato opposto il presente: Giulio II. Questa volta egli è partecipe del miracolo e con le sue mani giunte e la sua imponente persona, si abbandona degnamente alla preghiera. Dietro di lui rimangono lo stupore nei volti dei cardinali e l’ordine e la verosimiglianza delle guardie svizzere. 

     

    Il papa e la sua storia

    Quanto questo ciclo di affreschi fosse legato alla persona, alla sensibilità e alla cultura del pontefice, lo stiamo ben vedendo. Eppure c’è un ulteriore passo che risulta necessario fare per comprendere l’importanza di questi affreschi e vederli come un vero e proprio manifesto eterno della fede e del potere di Giulio II. Il 22 giugno 1512 il pontefice si recò nella chiesa romana di San Pietro in Vincoli, sua chiesa titolare nella quale erano e sono conservate le catene dell’apostolo Pietro. Il giorno precedente egli aveva avuto la notizia che i francesi erano stati cacciati dall’Italia. Dio aveva liberato dai vincoli il suo popolo. 

     

    La liberazione di Pietro dal carcere

    Allora l’affresco della liberazione di Pietro dal carcere, realizzato sopra la finestra, la più cupa e drammatica delle raffigurazioni, assume un tono rassicurante e concreto. Le spesse mura della prigione, alla quale abbiamo accesso grazie all’invenzione della cancellata in controluce, le numerose guardie, il buio, sono tutte realtà visibili e che esistono grazie alla presenza luminosa e salvifica dell’angelo. Costui, probabilmente entrato dalla sinistra, ove le guardie si stanno ora risvegliando e l’alba verrà a rischiarare questo notturno estasiante, entra nel carcere, spezza le catene e chiama a sé il Pietro dormiente e orante.

    Quel Pietro che, come la Chiesa, sovente si addormenta nella preghiera. La prigionia, la sofferenza, divengono con la presenza di Dio momenti di luce, nei quali gli stessi carcerieri sono ridotti a manichini, a quinte umane.

    E, infine, l’uscita. Pietro è sconcertato e come un non vedente necessita ancora di essere preso per mano. L’angelo invece dona parte della sua luminosità al cammino, rischiarando la strada, alla quale sono vocati quei piedi raffigurati magistralmente. Qui Giulio II, sebbene non fisicamente, è più presente che mai, in qualità di successore di Pietro.

     

    Scopri anche le altre Stanze Vaticane

     

    L’incontro di papa Leone Magno con Attila

    Con l’ultima parete si torna nella storia e si richiama ancora l’attualità con la dipartita dei francesi. Su questa è infatti raffigurato l’incontro di papa Leone Magno con Attila, dopo il quale il re degli Unni decise di abbandonare l’Italia. Diversi progetti per quest’affresco dimostrano quanto la composizione sia stata studiata e più volte cambiata. Sulla sinistra il placido gruppo di chierici con il papa e la croce processionale è scortato dall’intervento miracoloso dei due milites cristiani, Pietro e Paolo ai quali è rivolto lo sguardo di Attila, che chiama alla ritirata. Dal lato opposto cavalli imbizzarriti e un tumulto che è dato dal dinamismo del cambiare direzione. La preghiera, sebbene non sia in questo caso centro della composizione è motore dell’azione. 

    Eppure in questo caso non vediamo papa Giulio II della Rovere e nemmeno Leone Magno, bensì Leone X, il nuovo pontefice. Ma i rapporti tra Raffaello e questo nuovo saranno oggetto del prossimo video.art. 

    Ancora su Raffaello Sanzio...

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    Raffaello a Roma: Giulio II e le stanze vaticane.

    I passi del divin pittore ci portano dunque a Roma dopo Urbino, Perugia e Firenze. Chiamato nel 1508 da papa Giulio II, Raffaello ha l’enorme occasione di mettere piede nella città pontificia madre dell’antichità, palcoscenico e banco di prova dei maggiori artisti. Qui, per lui, si aprirono nuove stanze, o meglio egli stesso, attraverso la sua arte, gli diede vita…

    Il riferimento alle nuove stanze è certamente quello che pensavate. Giulio II aveva chiesto ai più celebri artisti dell’epoca di affrescare le pareti del nuovo piano dei suoi appartamenti, avendo egli voluto trasferirsi al piano superiore e lasciare le stanze dell’odiato predecessore Alessandro VI. Il papa, grande amante e intenditore d’arte, aveva già chiamato a sé il Sodoma, Bramantino, Baldassarre Peruzzi, Luca Signorelli, il Perugino, Lorenzo Lotto per l’importante lavoro. 

    Tra questi aveva incaricato Raffaello di realizzare un affresco su una delle quattro pareti della stanza che egli usava come biblioteca. Questa, prese poi il nome di Stanza della Segnatura in quanto sotto il pontificato di Paolo III vi si riuniva l’omonimo tribunale.

    La stanza della segnatura

    Proprio la funzione di questo luogo ispirò il programma iconografico che doveva fondarsi sulle quattro facoltà universitarie medievali: la filosofia, la giurisprudenza, la poesia e la teologia. Quest’ultimo fu il soggetto, il macrotema dell’affresco affidato a Raffaello. Un’opera con la quale egli si guadagnò sì tanta fiducia da parte del pontefice, da far sì che tutti i lavori degli altri artisti fossero poi sostituiti da quelli del Sanzio. Quindi che l’intera stanza, ad eccezione del soffitto che pure modificò, fosse da lui affrescata. 

    La disputa sul Sacramento

    La disputa sul Sacramento

    La Chiesa terrena

    Partiamo allora dalla disputa sul sacramento. È questa una composizione che diparte dal basso, all’altezza dell’occhio dello spettatore e che, attraverso il pavimento e le linee prospettiche su questo disegnate, corre e sale fino all’altare. Su questo è esposto il sacramento, l’eucaristia, il centro e il fulcro dell’intero affresco. E difatti costituisce l’oggetto di quanto avviene dintorno: una disputa concitata, emozionante, umana. Tra i personaggi si scorgono i quattro padri latini della dottrina, accompagnati da teologi e membri della Chiesa e di ordini religiosi con Dante e papa Sisto IV.

    La Chiesa ultraterrena

    Alla concitazione del piano inferiore si oppone, e non poteva essere altrimenti, la gloria, la beatitudine della Chiesa ultraterrena. Anche in questo caso tutto si origina dal centro con la rappresentazione del gruppo della Deesis (Cristo, la Vergine e Giovanni il battista). Quest’ultima costituisce un’iconografia così cara alla Chiesa di Roma che non poteva di certo mancare in questa ‘abside immaginaria’. Si percepisce inoltre una verticalità (anch’essa propria delle composizioni absidali) che pone sul medesimo asse il Sacramento, la colomba dello Spirito Santo, il Cristo e Dio Padre (La Santissima Trinità). Attorno, ancora una volta a questo fulcro, c’è la comunità dei santi, di apostoli e patriarchi, assisi su un banco di nuvole.

    Il mistero per il quale Cristo si fa eucaristia attraverso lo Spirito Santo è reso pittoricamente mediante l’immagine del cerchio, il quale da sfondo radiante della persona di Gesù, attraverso l’aurea luminosa della colomba si fa carne nell’ostia. Gli stessi cerchi posti orizzontalmente e dilatati nello spazio vanno a creare l’intera composizione conferendo un ordine compositivo alla Chiesa terrena e ultraterrena. Due realtà che, sebbene parallele, si compenetrano.

    La scuola di Atene

    La scuola di Atene

    Sulla parete di fronte Raffaello realizzò l’affresco della scuola di Atene. Al cielo e all’orizzonte si sostituisce parzialmente una struttura basilicale di ‘tempio della filosofia’. All’interno di questo sono collocate in due nicchie opposte le statue di Apollo, divinità ideale della musica e della poesia, e di Minerva, dea conosciuta per la sua saggezza. 

    Dominano la scena, stavolta tutta terrena, i due filosofi Aristotele e Platone con una folta schiera di allievi e maestri: il patrimonio ideale e spirituale della filosofia. Tra le molte interpretazioni sembra cogliere a fondo il significato del luogo e del periodo in cui questo affresco fu ideato quella che vede illustrate nei gruppi di filosofi le sette arti liberali: membra del corpo della filosofia. Partendo dal basso possiamo individuare le quattro figure che incarnano le discipline scientifiche formanti il quadrivio. Pitagora padre dell’aritmetica che assieme alla musica contribuisce all’armonia del mondo, Archimede raffigura la geometria e Zoroastro l’astronomia. Nella parte più alta Raffaello rappresenta le arti del trivio. La grammatica, illustrata nell’allievo e nel maestro sulla sinistra, la Retorica incarnata dal Socrate orante e, infine, Platone e Aristotele rappresentanti, con le loro celebri dita rivolte a direzioni opposte, la dialettica. 

    Il monte Parnaso

    Il monte Parnaso

    Siamo alla terza parete, affrescata tra il 1510 e il 1511. Saliamo sul monte Parnaso e sulla cima Apollo, circondato dalle muse e dai grandi poeti del passato (Omero, Virgilio, Dante e Petrarca, Boccaccio e Saffo) suona la sua lira. La bellezza e l’armonia delle figure sembra essere sinestetica e riproporre la musica suonata dal dio. Un’opera questa che per esser compresa a fondo va in qualche modo ‘velata’. Velata era infatti dalla luce naturale che entrava dalla finestra e che lasciava intravedere di là da quella il colle Vaticano. Qui i suoi giardini di paradiso terrestre riportavano la mente dell’osservatore all’origine di quel sito, anche denominato mons Apollinis, luogo d’adorazione del dio Apollo. Mito, religione storia e realtà dialogano allora in questo posto con l’arte. 

    Le Virtù

    Le Virtù

    Sull’ultima parete di questa stanza la giustizia sta. O meglio la giustizia sorveglia dall’alto del suo clipeo. Nella lunetta infatti sono raffigurate le tre virtù cardinali fortezza, prudenza e temperanza. Nei loro corpi, nella mascolinità e plasticità di questi, possiamo scorgere l’influenza delle immagini michelangiolesche che Raffaello forse vide nell’estate del 1511 sulle volte della Cappella Sistina.

    Tornando all’affresco, sulla sinistra vediamo raffigurato Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano. Sulla destra invece, papa Gregorio IX (in vero Giulio II) che riceve le decretali da San Raimondo di Penafort. 

    Nuove stanze

    Come si accennava all’inizio di questo articolo Raffaello aprì nuove stanze. E non lo fece unicamente in senso figurato con rappresentazioni in grado di sfondare prospetticamente pareti regalando spazi illusori di grande qualità. Giulio II fu un pontefice di grande carisma che dovette affrontare le ingerenze spagnole francesi e tedesche nonché quelle della Repubblica veneziana nella geopolitica di allora. Lo stato pontificio andava difeso nella sua entità morale ma anche e soprattutto nell’integrità territoriale. E tuttavia questo pontefice, questo uomo era così amante del bello che riuscì in una tale situazione di crisi a commissionare, a pensare e desiderare, questi capolavori.

    Venendo al Novecento Eugenio Montale, alle soglie della seconda guerra mondiale, con presentimenti funerei che pervadono le composizioni poetiche di quegli anni, trova, nella poesia, l’occasione di creare nuove stanze (un componimento inserito nella raccolta La bufera ed altro). Stanze intese forse da Montale come poetiche costruzioni di versi, mentre per Giulio II e quindi per Raffaello dobbiamo pensarli come luoghi concreti da rinnovare o da rifondare nella bellezza.

    Ci sono tre punti comuni a queste storie: una situazione di crisi e quella è parte anche della realtà odierna; le potenzialità rivoluzionarie del bello dell’arte e della poesia e queste ci sono, sempre! Infine: un’anima che si metta alla prova…che aspetti?

    Nuove stanze

    Poi che gli ultimi fili di tabacco
    al tuo gesto si spengono nel piatto
    di cristallo, al soffitto lenta sale
    la spirale del fumo
    che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
    guardano stupefatti; e nuovi anelli
    la seguono, più mobili di quelli
    delle tua dita.

    La morgana che in cielo liberava
    torri e ponti è sparita
    al primo soffio; s’apre la finestra
    non vista e il fumo s’agita. Là in fondo,
    altro stormo si muove: una tregenda
    d’uomini che non sa questo tuo incenso,
    nella scacchiera di cui puoi tu sola
    comporre il senso.

    Il mio dubbio d’un tempo era se forse
    tu stessa ignori il giuoco che si svolge
    sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
    follìa di morte non si placa a poco
    prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo
    ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
    cortine che per te fomenta il dio
    del caso, quando assiste.

    Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
    tocco la Martinella ed impaura
    le sagome d’avorio in una luce
    spettrale di nevaio. Ma resiste
    e vince il premio della solitaria
    veglia chi può con te allo specchio ustorio
    che accieca le pedine opporre i tuoi
    occhi d’acciaio.


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    Raffaello, il periodo fiorentino

    Raffaello arriva nel 1504 a Firenze, ed è rivoluzione!

    Di certo l’esperienza del giovane urbinate, che già negli anni precedenti lo aveva portato a viaggiare per l’appennino muovendosi tra Umbria, Marche e Toscana, probabilmente già prima di quel fatidico anno gli permise di mettere il naso sugli affari artistici fiorentini. È con una lettera datata primo ottobre 1504 e firmata da Giovanna Feltria, sorella del Duca d’Urbino, che Raffaello si presentò al gonfaloniere della Repubblica fiorentina Pier Soderini. Costui aveva speso gran mole di denari pubblici per la realizzazione del David (da esporre nella piazza del potere politico cittadino) e per la decorazione della sala del Gran Consiglio. Due lavori di enorme valore simbolico per i quali si era affidato ad artisti quali Michelangelo e Leonardo.

    Questa lettera tuttavia non procurò a Raffaello vere e proprie commissioni, ma aprì ai suoi occhi assetati di immagini, la visita delle botteghe dei due grandi maestri che animavano la scena artistica. Raffaello vide dunque i progetti leonardiane e i capolavori michelangioleschi, plasmando pian piano il suo disegno e aprendosi a nuovi modi di dipingere. 

    C’è un evoluzione, c’è un captare continuo di immagini e forme che rende le opere si questo periodo fiorentino, se lette conseguentemente, una sorta di climax, che permette di cogliere visivamente e materialmente la febbrile volontà di crescita di un giovane.

    Le opere dei primi e il confronto con Leonardo

    Vediamo le più celebri e prendiamo come punto di riferimento iniziale la Madonna Conestabile (1503-1504) ancora fortemente legata nei modi e ai modelli perugineschi.

    Raffaello Sanzio, Madonna Constable, 1503-1504.
    Raffaello Sanzio, Madonna Terranova, 1504-1505.

    Già notiamo dei cambiamenti nella Madonna Terranova, nella quale osserviamo una maggior naturalezza percependo i sentimenti delle figure ritratte. Guardate come è diverso lo sfumato, cogliete la profondità di quella mano in scorcio figlia delle mani del Masaccio e di Leonardo. Il confronto inoltre sia per cronologia che per la forma dell’opera ci porta a pensare al Tondo Doni michelangiolesco, opera sulla quale Raffaello approfondirà la riflessione, ma che in parte già riprende per la balaustra sullo sfondo e per la sapiente separazione dei piani. Non dimenticandoci che è proprio in questi anni che Raffaello realizzò i ritratti di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, committenti del tondo. Ritratti nei quali il modello leonardesco è manifesto e in cui il giovane sceglie di approfondire l’intensità psicologica.

    È con la Madonna del Cardellino (1505-1506) e con la Madonna del Belvedere (1505-1506) che Raffaello si concentra sullo studio della composizione e della concatenazione delle figure, conferendo loro una inedita delicatezza di forme. Qui, ancor di più notiamo la resa della prospettiva aerea, e dell’indefinitezza dell’orizzonte. 

    La Madonna del Granduca e la Sacra famiglia Canigiani

    È questo per Raffaello un eccellente momento di prova per sperimentare quante più variazioni sul medesimo tema della Madonna con il Bambino. Egli amplia e migliora composizioni, cogliendo a man bassa dalla ricchezza d’immagini di elevata qualità che Firenze sapeva offrire, ma avendo anche grande memoria. Già Roberto Longhi colse l’importanza che ebbe la lunetta del San Domenico di Urbino di Luca Della Robbia nell’elaborazione della Madonna del Granduca (1506 – 1507). Si noti la posizione delle mani, che sole insieme al volto della Vergine e del Bambino, smontano la ieraticità delle pose, avvicinando l’opera allo spettatore. 

    È con la Madonna Bridgewater che Raffaello si concentra sulla la plasticità corporea, avendo come modello il Michelangelo giovane scultore del Tondo Taddei. Sicuramente l’opera nella quale Raffaello dimostra di aver pienamente compreso la lezione del più anziano pittore è la Sacra Famiglia Canigiani. In quest’opera realizzata nel 1507 per Domenico Canegiani (cognato di Lorenzo Nasi) ritroviamo un sunto perfetto del livello eccezionale che Raffaello ha raggiunto.

    Raffaello Sanzio, Sacra famiglia Canigiani, 1507.

    Non solo Leonardo e Michelangelo…

    Non solo Leonardo e Michelangelo tuttavia, Firenze ha una storia, e ancora nel 1507-1508 Raffaello comprende la grandezza dei modelli passati. Nella Madonna Tempi 1507 – 1508 rivediamo il Donatello della Madonna Pazzi e del Miracolo del Neonato nell’Altare del Santo. Stessa posa, rivista con l’intimità e il sentimento: Raffaello non aveva mai abbandonato Donatello e la scultura quattrocentesca. 

    Raffaello Sanzio, Madonna Tempi, 1507-1508

    Queste opere, frutto di una devozione privata, sono concepite da Raffaello come unicum. Sebbene il tema sia lo stesso egli non ripercorre la strada dei modelli e dei patroni, ma in un brainstorming di forme e linee dà vita continua a nuove figure. 

    I committenti delle ‘Madonne fiorentine’.

    Se la lettera a Pier Soderini non portò probabilmente alle committenze attese, fu l’incontro e l’amicizia con Taddeo Taddei che invece generò frutti numerosi e di pregiata bellezza. A lui, di cui fu ospite, come ricorda il Vasari, donò due sue opere: la Madonna Terranova e la Madonna del Prato o del Belvedere.

    È proprio forse in casa di suddetto Taddeo (Il Vasari scrive: “gli fu dato ricetto nella casa di Taddeo Taddei, e vi fu onorato molto, atteso che Taddeo era inclinato da natura a far carezze a tali ingegni”) che Raffaello fece la conoscenza e strinse amicizia con l’umanista veneziano Pietro Bembo. Quest’ultimo, coetaneo di Taddeo, fu parte attiva di quella cerchia di committenti filo-medicei i quali furono i veri fruitori delle ‘Madonne fiorentine’. 

    La cosa sconvolgente non è solo il fatto che Raffaello realizzi queste opere all’età di circa ventidue anni, ma che gli stessi suoi committenti Lorenzo Nasi, Domenico Canigiani fossero all’epoca ventenni o poco più. 

    La Madonna del baldacchino e la partenza per Roma

    Raffaello dunque, presi i migliori aspetti della Firenze dell’epoca, dei grandi maestri della scultura quattrocentesca, di Leonardo e di Michelangelo, viene chiamato nel 1508 a Roma. E come Leonardo chiamato per il Nord lasciò incompiuta l’adorazione dei Magi, così Raffaello lasciò una delle poche commissioni pubbliche che in quella città aveva ricevuto: La Madonna del Baldacchino

    Raffaello Sanzio, Madonna del baldacchino, 1508.

    Il Condivi, amico e biografo di Michelangelo, in parte quella che ho definito all’inizio di questo excursus ‘rivoluzione’. Egli scrisse, non senza ironia, che Raffaello «in imitare era mirabile». Imitare, esatto, non copiare: in ciò è la grandezza dell’arte tutta.

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    Raffaello e Perugino, lo Sposalizio della Vergine

    Quattro incontri su Raffaello & Co. Collaborazioni, sfide e adattamenti che saranno accomunati da un partecipante fisso: Raffaello, glielo dobbiamo. Il 2020 è l’anno Sanzio: cinquecento anni dalla sua morte. In questo articolo scopriremo i suoi esordi: Raffaello e Perugino attraverso lo Sposalizio della Vergine.

    Insieme a lui altri artisti o personaggi che lo incontrarono e non; che ci lavorarono insieme e non; che gli insegnarono o che furono suoi allievi. È in realtà questa l’occasione per parlare delle mille facce di Raffaello e del suo unico volto, quello immortale del divin pittore

    Il padre e i “Due giovani per d’etate e par d’amori

    Il seme della passione per l’arte e la letteratura fu probabilmente gettato dal padre Giovanni Santi, il quale era sì pittore, ma soprattutto letterato e, in una sua opera (scritta), possiamo cogliere un indizio – celato come un biglietto nascosto tra le lenzuola dei corredi delle nonne – che egli lasciò al figlio sugli esempi da seguire.

    «Due giovani par d’etate e par d’amori»

    Giovanni Santi ha il grande coraggio di proporre a suo figlio due modelli giovani, grandi nella pittura: Leonardo e Perugino. 

    Raffaello a bottega dal Perugino

    Oggi in particolare vedremo come Raffaello duettò con il secondo di questi: Pietro di Cristoforo Vannucci: il Perugino. Uno tra i più celebri maestri del Rinascimento, che aveva imparato l’arte a bottega dal Verocchio al fianco di Leonardo e Botticelli, che tramutò tutto il reale in spazio e luce e che dipinse nella cappella Sistina, lì dove l’ancora giovane Raffaello non fu chiamato per affrescare bensì per completare, anni dopo, la decorazione della cappella, centro della cristianità, con degli arazzi. 

    Le prime opere

    Già il Vasari sostiene, a ragione, che il primo dipingere di Raffaello fosse così aderente alla maniera peruginesca da non poterlo distinguere. Dobbiamo infatti immaginare, vista l’assenza di documenti, che fu proprio attorno al 1486 che il giovane Raffaello lavorò nella bottega del Perugino, dove perfezionò l’iniziazione urbinate. Qui la pratica disegnativa era considerata di fondamentale importanza. Solo infatti passando da Perugia possiamo giustificare la bellezza stilistica alla base della pala di Tolentino (1500); caratterizzata da una grande sicurezza e modernità d’impianto.

    Pala di San Nicola da Tolentino Raffaello
    Raffaello Sanzio, pala di San Nicola da Tolentino, 1500-1501. Museo di Capodimonte, Napoli.

    Il genio di Raffaello è anche dimostrato dalla rapidità con la quale egli uscì dalla condizione di praticante per diventare magister. Fu proprio con questo termine che venne identificato nel momento in cui, pur diciassettenne, ricevette l’incarico della realizzare della pala di San Nicola, al fianco di Evangelista di Pian di Meleto.

    Di poco successiva è la pala Colonna. Anche questa caratterizzata dalla maniera puntigliosa e gentile del Perugino e da un metodo di costruzione della composizione che avveniva pre gradi: dai primi disegni, all’impronta di cartoni finiti al dettaglio fino alla realizzazione dell’opera.

    Pala Colonna Raffaello
    Raffaello Sanzio, Pala Colonna, 1503-1505. Metropolitan Museum of Art New York

    Di lì probabilmente la strada di Raffaello si distanziò, anche fisicamente, da quella del Perugino, per poi di nuovo affrontarsi e confrontarsi pochi anni dopo – maestro e allievo – sul tema dello sposalizio della Vergine. 

    Raffaello e Perugino: Lo Sposalizio della Vergine

    Fu difatti nel 1504, in contemporanea alla realizzazione della tavola di medesimo soggetto di Perugino per il duomo della sua città, che Raffaello realizzò l’opera per la cappella in San Francesco di Città di Castello della famiglia Albizzini. Raffaello vide probabilmente l’inizio del lavoro del Perugino il quale aveva ripreso una composizione già utilizzata per il grande affresco della Consegna delle chiavi nella Cappella Sistina. Questo confronto presente su tutti i libri di storia dell’arte ci rivela gli aspetti che Raffaello scelse di approfondire nella sua crescita artistica: 

    • La prima cosa che salta all’occhio è la differente seppur simile impostazione spaziale. Permane la  prospettiva centrale ma Raffaello rimpiccolì il tempio facendolo entrare completamente nel quadro e alzando di poco il fuoco prospettico. In questo modo viene accentuata la profondità e l’intera composizione assume un maggior respiro. Lo stesso edificio viene tramutato da ottagono in poligono a sedici lati: una forma più sfuggente, meno incombente e più armonica. 
    • C’è inoltre nello Sposalizio del Sanzio un affinamento della gamma cromatica, che permette anch’esso un diverso apprezzamento degli spazi. Due esempi tra tanti, le squadrature della pavimentazione e su tutti, la diversa luce che colpisce le numerose facce dell’edificio.
    • Infine, trasferendoci ai personaggi, c’è maggior naturalezza nelle figure, che comunque paiono ancora legate ai modelli perugineschi, ma in questi modelli iniziano a star strette sperimentando diverse e varie pose, tralasciando simmetrie e lavorando piuttosto sulle opposizioni. 

    L’allievo che supera il maestro?

    È il sorpasso! si dice. Ma nella cultura, almeno quella di Raffaello, non è il sorpasso di colui che sceglie di lasciare indietro il concorrente. Raffaello il Perugino ce l’ha in testa, sulle spalle, ne prende in prestito il lavoro per migliorarne gli aspetti e trasmetterlo, accresciuto ai posteri.  

    «É per il fatto di aver attinto a così tanti modelli, che diventò lui stesso un modello per tutti i pittori successivi; sempre imitando e sempre restando originale» Joshua Reynolds 

    In altre parole Raffaello è sì grande perché sa dipingere, perchè impara fin da giovane l’atto pratico del disegno e della stesura del colore, ma è divenuto grande perché nella sua vita ha saputo osservare e cogliere le grandezze e le bellezze degli altri e, da questi altri, imparare.


    Tanto altro su Raffaello:


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  • arte,  attualità,  musei,  rinascimento

    La nascita di Ferragni, scusate, di Venere!

    «Nel tempestoso IG in grembo a Schmidt
    si vede negli Uffizi un personaggio accolto,
    sotto diverso volger di obbiettivi
    errar per sale in vesti e firme avolto;
    ed essa nata in atti vaghi e lieti
    è una donzella oh sì d’umano volto,
    da social lascivi spinta a proda,
    gir sovra un nicchio (‘na conchiglia) e par che i fun ne godan!»

    Mai mi sarei atteso di salutare l’arrivo di Chiara Ferragni agli Uffizi mettendo goliardicamente mano alle stanze del Poliziano che accompagnarono negli anni Ottanta del Quattrocento l’elaborazione di due dei più celebri dipinti di Sandro Botticelli: La primavera e La Nascita di Venere.

    L’opera di Sandro Botticelli

    Venere: una perfezione giocata sull’instabilità di un corpo poggiato su un solo piede, il piede che conduce la conchiglia a riva in balia delle onde. Un’istantanea statica che ha in sé il dinamismo pacato della pudicizia. La dea sta approdando sull’isola di Cipro e, come immaginò nelle sue Stanze il Poliziano, cela le sue nudità («la dea premendo colla destra il crino, / coll’altra il dolce pome ricoprissi») in attesa di essere involta in un vestimento floreale ricamato di mirti, primule e rose. È una delle Ore a porgere a Venere il manto, Primavera forse, la stagione degli amori. Nella simmetria bilanciata dell’opera sono infine Zefiro e l’altra figura femminile a lui fisicamente attorta, forse Bora, a sospingere con il loro soffio di rose la dea: un modo quanto più delicato per rendere visibile il vento.

    Ma perchè nel Quattrocento riecheggiare e rappresentare miti antichi narrati da Omero, Lucrezio e Ovidio? Lo studio, le carte, le scoperte, in poche parole l’umanesimo, portò alla riscoperta dell’antico, all’apprezzamento e alla ripresa dei valori eterni visti con la lente dell’uomo che l’uomo era ed è. Quell’uomo che a sua insaputa stava per uscire dal medioevo. 

    Quali sono allora i significati sottesi alla Venere? Venere è dea dell’amore, ma nel Quattrocento la sua immagine ‘pagana’ passa per il filtro neoplatonico e la filosofia ficiniana, accentuando la semplicità e la purezza della sua bellezza, smaterializzando un corpo troppo umano e rendendola immagine pregna della componente estetica dell’humanitas e della bellezza sì, ma dell’anima. Si viene in qualche modo meno ad una profondità visiva e prospettica perchè l’immagine, il canone, entri nell’osservatore e sia veicolo di valori e ideali. I particolari di cui sono colme le opere di Botticelli non sono mai puro estetismo, non sono solamente dettagli di armonizzazione formale e cromatica, bensì rappresentano un vero e proprio codice iconografico con significato preciso e spesso a noi sfuggente, eppure ben leggibile agli occhi dei committenti e dei contemporanei dell’artista.

    L’opera giunse nella collezione medicea presso la villa di Castello di Giovanni e Lorenzo dei Medici cugini di Lorenzo il Magnifico e lì fu esposta (come ci racconta il Vasari) insieme alla celebre Primavera. Di questo ciclo mitologico facevano probabilmente parte anche Venere e Marte e Pallade e il Centauro. Tuttavia il dipinto non fu originariamente realizzato per la villa, e dovette essere lì portato da Cosimo I prima della visita del Vasari. Botticelli lo realizzo intorno al 1486, dopo il rientro da Roma e i lavori nella cappella Sistina.

    Tra i particolari più celebri il volto, sembra ritrarre le fattezze dell’amata Simonetta Vespucci, donna dalla bellezza senza paragoni alla quale gli Uffizi hanno accostato Chiara Ferragni quale donna che incarna oggi una « sorta di divinità contemporanea nell’era dei social ».

    La questione Ferragni

    In poche parole: Ferragni fa uno shooting agli Uffizi per Vogue Honkong e il museo pubblica alcuni scatti sui social, entrando nelle tendenze della macchina infernale di Instagram e ricevendo una grande pubblicità, in particolar modo tra i giovani. Tutto questo ha avuto un effetto positivo nell’immediato: il giorno successivo gli Uffizi hanno comunicato di aver avuto un incremento del 27 % di biglietti venduti a under 25; ma anche un effetto negativo consistente negli insulti e le critiche piovute sulla giovane imprenditrice da ogni dove e, in particolar modo, dal mondo della cultura. 

    Alcuni (s)punti di riflessione che la questione pone: 

    È giusto o meno l’utilizzo dei luoghi di cultura per occasioni simili? Si è tirato in ballo il «Marcello come here» di Anita Eckberg nella Fontana di Trevi in La Dolce Vita di Federico Fellini, si è fatto cenno alla piazza di Lecce trapunta di luci e pizzica per la sfilata di Dior; Ebbene questi eventi non possono essere presi come riferimento in quanto rappresentano anch’essi una forma d’arte, e bellezza! Dall’altro lato si è tirato in ballo Della Valle e la sua cena privata al Colosseo. Potrei essere stato d’accordo, se costui non avesse finanziato per intero il restauro dell’anfiteatro. Ma di cosa stiamo parlando? Davvero pretendiamo di mandare avanti il mondo culturale, con il patrimonio storico-artistico italiano senza aiuti esterni al pubblico? Senza i Medici a pagare, la Venere sarebbe ancora nella sua conchiglia. E così per altre mille committenze. 

    E per il caso specifico Ferragni? niente da dire! Anzi ben venga che i musei si aprano a ciò e si facciano aiutare dai nuovi imprenditori e personalità digitali. Invece di insultare il lavoro e le scelte di alcune persone cerchiamo di centrare il punto e porci domande sia sulla gestione museale, sia sulle nostre scelte giornaliere legate o meno al mondo della cultura. 

    Nel primo ambito bene la pubblicità, ma c’è poi un problema: chi e come pensa alla fruizione del museo? Chi e come accompagna quei giovani incappati davanti alla Venere anche solo per un selfie? Chi e come suggerirà ai visitatori che dietro un’immagine, un quadro e la stessa Venere c’è un bisogno, una richiesta e un invito impellente ad andare oltre? 

    Questa è la sfida vera che trascende chiacchiericci e articoli e per la quale molti educatori, curatori e guide turistiche stanno già lavorando con esperienza, pazienza e amore. Ma c’è da fare di più, e – guarda caso – mancano soldi! Portare persone al museo è un primo passo, ma farle tornare è poi l’obbiettivo: conoscere, approfondire, e lasciare da parte la superficie. 

    Ecco allora il secondo ambito, quello personale e privato: Davvero vogliamo che i musei, la cultura, la bellezza, tornino di tendenza? E intendo nel senso letterale del termine: Tendere, volgersi a, volgere gli occhi, il cuore l’anima a qualcosa. Perché questo tipo di tendenze sono difficili da realizzare e vivere, ma sono ben più durature di una tendenza social e hanno poi il valore aggiunto della formazione, perché quando il nostro animo si volge a qualcosa di bello, prende la sua forma! 

    Sta ad ognuno, con le scelte quotidiane, contribuire a tutto ciò e provare ad andare Oltre!