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    Il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich

    È il 1818 quando Caspar David Friedrich dipinge uno dei quadri più evocativi della storia dell’arte: Il viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer) oggi conservato alla Hamburger Kunsthalle. Come e perché quest’opera divenne così celebre? Cosa suggerisce alla mente dell’osservatore del XXI secolo? Perchè, infine, sarà proposto un confronto con l’Infinito di Giacomo Leopardi?

    Iniziamo da un’accurata descrizione dell’opera!

    Caspar David Friedrich, Il viandante sul mare di nebbia, 1818, Hamburger Kunsthalle.

    Analisi dell'opera: Il viandante sul mare di nebbia

    L’osservatore volge gli occhi a una scena che avviene in controluce: dal basso emerge il profilo d’uno sperone roccioso maculato di muschi ed erbe sul quale poggia in riposo, seppure in piedi, la figura di un uomo avvolto nel suo abito verde smeraldo. Il viandante solitario mostra una statica plasticità nel suo essere in contemplazione. Si osservino il bastone da passeggio, tenuto nella mano destra e puntato su una roccia poco dietro, e la gamba sinistra, piegata a fare un passo prossimo al precipizio, certa del limite. L’immagine del viandante si staglia decisa nell’affascinante contrasto cromatico del verde dell’abito con il rosso della nuvola di capelli scompigliati e mossi dal vento.

    In secondo piano, ma non meno rilevante, un paesaggio vago e indefinito si apre allo sguardo dell’osservatore e del viandante. Qui le nuvole tendono a salire, suscitando vaghezza di sentimenti e di visioni. Al movimento sfuggente e immobile di queste, si contrappongono le immagini certe di cime rocciose, coronate e non da alberi. Più si osa ad andare oltre con lo sguardo e più le cime si tingono di celeste, secondo la lezione (già allora caratterizzata da un tocco di ‘romanticismo’) della prospettiva aerea di Leonardo da Vinci.

    Il fascino della Rückenfigur

    Mai conosceremo il volto del Viandante sul mare di nebbia e, forse, è in questa scelta di rappresentare la figura di spalle (Rückenfigur) che si cela il segreto del fascino di questo dipinto.

    La tradizione della Rückenfigur è certamente sostanziosa, lo stesso Friedrich ne sperimentò l’utilizzo in altri suoi dipinti come ad esempio nel dipinto Donna al tramonto del sole e Due uomini contemplano la luna. Rimane la convinzione tuttavia che la maestria di Friedrich stia proprio nell’aver fatto di questa figura, in questo dipinto, il centro del quadro. Centro prospettico, visivo e, in parte, centro di convergenza della tensione verso l’alto delle nebbie e della gravità terrena che pianta il viandante a terra.


    Le bianche scogliere di Rügen

    Caspar David Friedrich, Le bianche scogliere di Rügen.

    Un mare di isole montuose

    Un altro tratto tipico della pittura di Caspar David Friedrich è la predilezione per soggetti di tipo paesaggistico. Oltre ad atmosfere marine che ritroviamo in celebri opere come Il monaco in riva al mare e Il mare di ghiaccio, Friedrich esplora l’universo montuoso e lo fa cogliendo l’immensità dei giganti petrosi e la vastità delle valli. L’attenzione atmosferica non si placa e diviene medium prospettico e luministico.

    Protagonista della maggior parte delle opere di questo pittore tedesco, considerato uno dei principali attori dell’arte romantica, è la natura nel suo svolgersi e cambiare. Tramonti, albe, tempeste nella loro vaghezza e nei loro giochi di luce sono infatti i momenti preferiti dall’artista per le sue tele. Sono questi i fenomeni che generano nell’uomo quel sentimento del sublime che sgorga da un confronto, senza filtri, del proprio io con la natura. Nel rapporto diretto uomo natura, nell’Ottocento, ci si percepisce protagonisti di un dialogo con l’infinito e una delle poche strade per far parte di questo scambio è l’atteggiamento della contemplazione.

    Ecco allora il bisogno di bloccare sulla tela il ricordo, l’ambiente, l’emozione profonda vissuta sulla propria pelle o immaginata sulla pelle altrui, sono le motivazioni che probabilmente spinsero Friedrich a dare vita a queste atmosfere idilliache e al tempo stesso reali. Il pittore lo fa mescolando, a tratti distopicamente, lontananza e vicinanza e conferendo al vuoto, all’aria, all’infinito un nuovo ed essenziale valore pittorico.

    Caspar David Friedrich, Paesaggio roccioso nell’Elbsandsteingebirge
    Caspar David Friedrich, Ricordi del Riesengebirge

    Il Viandante sul mare di nebbia e l'Infinito di Giacomo Leopardi: espressioni sublimi!

    Nella teorizzazione filosofica Schlegeliana di inizio Ottocento la bellezza e quindi l’arte sono direttamente connesse alla sfera della soggettività umana e alla messa in opera dell’io. Questo abbiamo visto essere preponderante nell’opera di Friedrich e scopriamo esserlo anche nella poetica leopardiana.

    I due uomini con le celebri opere scelte da noi e realizzate a distanza di pochi mesi l’una dall’altra (Il viandante sul mare di nebbia e l‘Infinito) indagano l’universo attorno a loro ricercando, forse anche inconsciamente, quel sublime che è «infinita pienezza e infinita armonia».

    Nel celebre idillio, studiato e scritto dal poeta recanatese nel 1819, viviamo quello slancio verso l’infinito, all’interno del quale percepiamo contemporaneamente una profonda nostalgia di totalità e un sentimento di stupore per l’intuizione di questa.

    Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
    e questa siepe, che da tanta parte
    dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
    Ma sedendo e mirando, interminati
    spazi di là da quella, e sovrumani
    silenzi, e profondissima quïete
    io nel pensier mi fingo, ove per poco
    il cor non si spaura. E come il vento
    odo stormir tra queste piante, io quello
    infinito silenzio a questa voce
    vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
    e le morte stagioni, e la presente
    e viva, e il suon di lei. Così tra questa
    immensità s’annega il pensier mio:
    e il naufragar m’è dolce in questo mare.

    – 

    Se la siepe l’avessimo dentro, ad aprirsi davanti a noi potrebbe essere uno dei tanti paesaggi sublimi di Friedrich!

  • arte,  attualità,  musei

    Picasso, il periodo blu, la tristezza.

    Pablo Picasso – Poveri in riva al mare

    Cosa vi viene in mente se vi chiedo di chiudere gli occhi e pensare al colore blu? Il mare, il cielo, Modugno. I creatori di Inside Out, uno dei film d’animazione più celebri degli ultimi anni, hanno abbinato al Blu il personaggio di Tristezza. Ma cosa c’entra tutto questo con Picasso? Scopriamolo insieme.

    Una famiglia in blu, dai colori del mare e del cielo, dai toni della disperazione e della povertà. La donna è isolata sulla sinistra, nel suo ceruleo intenso, chiusa in se stessa. Le braccia strette al seno rivelano la figura scheletrica delle spalle e delle scapole, che nemmeno lo scialle riesce a camuffare. 

    Sulla destra due uomini, o meglio un uomo presente e un uomo, forse, futuro: un bambino, già segnato dalla vita, anch’egli cosparso di blu.

    Picasso e il suo tempo

    Fin da subito guardando quest’opera si percepisce il marcato cambio di prospettiva che in meno di cento anni avviene nella percezione del mondo e dell’io. Se all’inizio dell’Ottocento di fronte ad un mare l’essere umano si comprendeva come parte di un’infinito percependone e quindi raffigurandone il sublime (si veda Il monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich), con il Novecento e i nuovi approfondimenti e studi sulla percezione dell’io, emerge forte il senso di inadeguatezza. Nel dipinto di Picasso il mare scopare alle spalle dei personaggi, immersi in una realtà soffocante e in un’atmosfera triste.

    L’ennui di Charle Baudelaire, il male di vivere di Montale, gli alienati di Géricault sono tutte espressioni di sofferenza e inadeguatezza, passate e future, che percepiamo concentrate in queste tre figure statuarie. Salvador Dalì, forse le riprenderà alcuni anni dopo, deumanizzandola e raffigurando ciò che rimaneva dell’uomo e della donna. Una sacra famiglia pauperizzata, a fondo blu, immersa nella condizione della povertà: ecco il centro! La povertà. La condizione d’interesse di Picasso.

    Questo è uno dei molti dipinti del cosiddetto periodo blu, tre anni di toni cerulei e celesti. Fu una scelta probabilmente scaturita da una delle tragedie della Belle Epoque: il suicidio del suo caro amico Carlos Casagemas nel 1901. A lui, alla sua sepoltura, Picasso dedicò il dipinto Evocazione. E proseguì il suo lavoro con una serie di tele che per soggetto hanno gli ultimi, inviluppati e racchiusi, anche fisicamente, nelle loro condizioni: «personaggi che recitano il loro dolore» (Moravia). 

    Il celebre poeta Apollinaire commentò così i dipinti di questo periodo: 

    Picasso ha guardato le immagini umane che ondeggiano nell’azzurro delle nostre memorie […]. Fanciulli vaganti senza catechismo, che sostano mentre la pioggia dissecca, che non conoscono l’abbraccio e comprendono tutto […]. Donne non più amate, ma che ricordano, che dileguano col sorgere del giorno, appagate di silenzio […]. Picasso ha vissuto questa pittura rorida, blu come il fondo umido del baratro, misericorde: una misericordia che lo ha reso più aspro.

    Feeling blue è l’espressione americana che identifica il sentirsi triste. In qualche modo questo colore è passato a identificare il blue monday (il lunedì più triste dell’anno) e il blue whale (l’osceno gioco che ha portato dei ragazzi al suicidio). Lo stesso personaggio di Tristezza in Inside Out, è di colore azzurro. 

    Eppure in Picasso il blu non è solo emozione, è l’espressione profonda di una povertà materiale che atterrisce e immobilizza e che, solo chi l’ha provata sulla propria pelle può comprendere a fondo. È il blu dell’impotenza di fronte a situazioni di vita, è il blu della depressione: male sempre più sottovalutato e purtroppo dilagante. 

    La preghiera in Oceano mare

    E allora mi immagino da quelle bocche pronunciare questa preghiera che Baricco scrisse nel suo capolavoro Oceanomare

    «Così questo buio io lo prendo e lo metto nelle vostre mani. E vi chiedo Signore Buon Dio di tenerlo con voi un’ora soltanto tenervelo in mano quel tanto che basta per scioglierne il nero per sciogliere il male che fa nella testa quel buio e nel cuore quel nero, vorreste? Potreste anche solo chinarvi guardarlo sorriderne aprirlo rubargli una luce e lasciarlo cadere che tanto a trovarlo ci penso poi io a vedere dov’è. Una cosa da nulla per voi, così grande per me. Mi ascoltate Signore Buon Dio? Non è chiedervi tanto chiedervi se. Non è offesa sperare che voi. Non è sciocco illudersi di. Scrivete voi, dove volete, il sentiero che ho perduto. Basta un segno, qualcosa, un graffio leggero sul vetro di questi occhi che guardano senza vedere, io lo vedrò. Scrivete sul mondo una sola parola scritta per me, la leggerò. Sfiorate un istante di questo silenzio, lo sentirò. Non abbiate paura, io non ne ho. E scivoli via questa preghiera con la forza delle parole oltre la gabbia del mondo fino a chissà dove. Amen». 

    Nel dipinto, nonostante il blu onnipresente, la speranza seppur flebile c’è: sono le mani del bambino (le uniche del dipinto) e i suoi occhi (gli unici del dipinto).