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    Picasso, il periodo blu, la tristezza.

    Pablo Picasso – Poveri in riva al mare

    Cosa vi viene in mente se vi chiedo di chiudere gli occhi e pensare al colore blu? Il mare, il cielo, Modugno. I creatori di Inside Out, uno dei film d’animazione più celebri degli ultimi anni, hanno abbinato al Blu il personaggio di Tristezza. Ma cosa c’entra tutto questo con Picasso? Scopriamolo insieme.

    Una famiglia in blu, dai colori del mare e del cielo, dai toni della disperazione e della povertà. La donna è isolata sulla sinistra, nel suo ceruleo intenso, chiusa in se stessa. Le braccia strette al seno rivelano la figura scheletrica delle spalle e delle scapole, che nemmeno lo scialle riesce a camuffare. 

    Sulla destra due uomini, o meglio un uomo presente e un uomo, forse, futuro: un bambino, già segnato dalla vita, anch’egli cosparso di blu.

    Picasso e il suo tempo

    Fin da subito guardando quest’opera si percepisce il marcato cambio di prospettiva che in meno di cento anni avviene nella percezione del mondo e dell’io. Se all’inizio dell’Ottocento di fronte ad un mare l’essere umano si comprendeva come parte di un’infinito percependone e quindi raffigurandone il sublime (si veda Il monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich), con il Novecento e i nuovi approfondimenti e studi sulla percezione dell’io, emerge forte il senso di inadeguatezza. Nel dipinto di Picasso il mare scopare alle spalle dei personaggi, immersi in una realtà soffocante e in un’atmosfera triste.

    L’ennui di Charle Baudelaire, il male di vivere di Montale, gli alienati di Géricault sono tutte espressioni di sofferenza e inadeguatezza, passate e future, che percepiamo concentrate in queste tre figure statuarie. Salvador Dalì, forse le riprenderà alcuni anni dopo, deumanizzandola e raffigurando ciò che rimaneva dell’uomo e della donna. Una sacra famiglia pauperizzata, a fondo blu, immersa nella condizione della povertà: ecco il centro! La povertà. La condizione d’interesse di Picasso.

    Questo è uno dei molti dipinti del cosiddetto periodo blu, tre anni di toni cerulei e celesti. Fu una scelta probabilmente scaturita da una delle tragedie della Belle Epoque: il suicidio del suo caro amico Carlos Casagemas nel 1901. A lui, alla sua sepoltura, Picasso dedicò il dipinto Evocazione. E proseguì il suo lavoro con una serie di tele che per soggetto hanno gli ultimi, inviluppati e racchiusi, anche fisicamente, nelle loro condizioni: «personaggi che recitano il loro dolore» (Moravia). 

    Il celebre poeta Apollinaire commentò così i dipinti di questo periodo: 

    Picasso ha guardato le immagini umane che ondeggiano nell’azzurro delle nostre memorie […]. Fanciulli vaganti senza catechismo, che sostano mentre la pioggia dissecca, che non conoscono l’abbraccio e comprendono tutto […]. Donne non più amate, ma che ricordano, che dileguano col sorgere del giorno, appagate di silenzio […]. Picasso ha vissuto questa pittura rorida, blu come il fondo umido del baratro, misericorde: una misericordia che lo ha reso più aspro.

    Feeling blue è l’espressione americana che identifica il sentirsi triste. In qualche modo questo colore è passato a identificare il blue monday (il lunedì più triste dell’anno) e il blue whale (l’osceno gioco che ha portato dei ragazzi al suicidio). Lo stesso personaggio di Tristezza in Inside Out, è di colore azzurro. 

    Eppure in Picasso il blu non è solo emozione, è l’espressione profonda di una povertà materiale che atterrisce e immobilizza e che, solo chi l’ha provata sulla propria pelle può comprendere a fondo. È il blu dell’impotenza di fronte a situazioni di vita, è il blu della depressione: male sempre più sottovalutato e purtroppo dilagante. 

    La preghiera in Oceano mare

    E allora mi immagino da quelle bocche pronunciare questa preghiera che Baricco scrisse nel suo capolavoro Oceanomare

    «Così questo buio io lo prendo e lo metto nelle vostre mani. E vi chiedo Signore Buon Dio di tenerlo con voi un’ora soltanto tenervelo in mano quel tanto che basta per scioglierne il nero per sciogliere il male che fa nella testa quel buio e nel cuore quel nero, vorreste? Potreste anche solo chinarvi guardarlo sorriderne aprirlo rubargli una luce e lasciarlo cadere che tanto a trovarlo ci penso poi io a vedere dov’è. Una cosa da nulla per voi, così grande per me. Mi ascoltate Signore Buon Dio? Non è chiedervi tanto chiedervi se. Non è offesa sperare che voi. Non è sciocco illudersi di. Scrivete voi, dove volete, il sentiero che ho perduto. Basta un segno, qualcosa, un graffio leggero sul vetro di questi occhi che guardano senza vedere, io lo vedrò. Scrivete sul mondo una sola parola scritta per me, la leggerò. Sfiorate un istante di questo silenzio, lo sentirò. Non abbiate paura, io non ne ho. E scivoli via questa preghiera con la forza delle parole oltre la gabbia del mondo fino a chissà dove. Amen». 

    Nel dipinto, nonostante il blu onnipresente, la speranza seppur flebile c’è: sono le mani del bambino (le uniche del dipinto) e i suoi occhi (gli unici del dipinto).

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    La nascita di Ferragni, scusate, di Venere!

    «Nel tempestoso IG in grembo a Schmidt
    si vede negli Uffizi un personaggio accolto,
    sotto diverso volger di obbiettivi
    errar per sale in vesti e firme avolto;
    ed essa nata in atti vaghi e lieti
    è una donzella oh sì d’umano volto,
    da social lascivi spinta a proda,
    gir sovra un nicchio (‘na conchiglia) e par che i fun ne godan!»

    Mai mi sarei atteso di salutare l’arrivo di Chiara Ferragni agli Uffizi mettendo goliardicamente mano alle stanze del Poliziano che accompagnarono negli anni Ottanta del Quattrocento l’elaborazione di due dei più celebri dipinti di Sandro Botticelli: La primavera e La Nascita di Venere.

    L’opera di Sandro Botticelli

    Venere: una perfezione giocata sull’instabilità di un corpo poggiato su un solo piede, il piede che conduce la conchiglia a riva in balia delle onde. Un’istantanea statica che ha in sé il dinamismo pacato della pudicizia. La dea sta approdando sull’isola di Cipro e, come immaginò nelle sue Stanze il Poliziano, cela le sue nudità («la dea premendo colla destra il crino, / coll’altra il dolce pome ricoprissi») in attesa di essere involta in un vestimento floreale ricamato di mirti, primule e rose. È una delle Ore a porgere a Venere il manto, Primavera forse, la stagione degli amori. Nella simmetria bilanciata dell’opera sono infine Zefiro e l’altra figura femminile a lui fisicamente attorta, forse Bora, a sospingere con il loro soffio di rose la dea: un modo quanto più delicato per rendere visibile il vento.

    Ma perchè nel Quattrocento riecheggiare e rappresentare miti antichi narrati da Omero, Lucrezio e Ovidio? Lo studio, le carte, le scoperte, in poche parole l’umanesimo, portò alla riscoperta dell’antico, all’apprezzamento e alla ripresa dei valori eterni visti con la lente dell’uomo che l’uomo era ed è. Quell’uomo che a sua insaputa stava per uscire dal medioevo. 

    Quali sono allora i significati sottesi alla Venere? Venere è dea dell’amore, ma nel Quattrocento la sua immagine ‘pagana’ passa per il filtro neoplatonico e la filosofia ficiniana, accentuando la semplicità e la purezza della sua bellezza, smaterializzando un corpo troppo umano e rendendola immagine pregna della componente estetica dell’humanitas e della bellezza sì, ma dell’anima. Si viene in qualche modo meno ad una profondità visiva e prospettica perchè l’immagine, il canone, entri nell’osservatore e sia veicolo di valori e ideali. I particolari di cui sono colme le opere di Botticelli non sono mai puro estetismo, non sono solamente dettagli di armonizzazione formale e cromatica, bensì rappresentano un vero e proprio codice iconografico con significato preciso e spesso a noi sfuggente, eppure ben leggibile agli occhi dei committenti e dei contemporanei dell’artista.

    L’opera giunse nella collezione medicea presso la villa di Castello di Giovanni e Lorenzo dei Medici cugini di Lorenzo il Magnifico e lì fu esposta (come ci racconta il Vasari) insieme alla celebre Primavera. Di questo ciclo mitologico facevano probabilmente parte anche Venere e Marte e Pallade e il Centauro. Tuttavia il dipinto non fu originariamente realizzato per la villa, e dovette essere lì portato da Cosimo I prima della visita del Vasari. Botticelli lo realizzo intorno al 1486, dopo il rientro da Roma e i lavori nella cappella Sistina.

    Tra i particolari più celebri il volto, sembra ritrarre le fattezze dell’amata Simonetta Vespucci, donna dalla bellezza senza paragoni alla quale gli Uffizi hanno accostato Chiara Ferragni quale donna che incarna oggi una « sorta di divinità contemporanea nell’era dei social ».

    La questione Ferragni

    In poche parole: Ferragni fa uno shooting agli Uffizi per Vogue Honkong e il museo pubblica alcuni scatti sui social, entrando nelle tendenze della macchina infernale di Instagram e ricevendo una grande pubblicità, in particolar modo tra i giovani. Tutto questo ha avuto un effetto positivo nell’immediato: il giorno successivo gli Uffizi hanno comunicato di aver avuto un incremento del 27 % di biglietti venduti a under 25; ma anche un effetto negativo consistente negli insulti e le critiche piovute sulla giovane imprenditrice da ogni dove e, in particolar modo, dal mondo della cultura. 

    Alcuni (s)punti di riflessione che la questione pone: 

    È giusto o meno l’utilizzo dei luoghi di cultura per occasioni simili? Si è tirato in ballo il «Marcello come here» di Anita Eckberg nella Fontana di Trevi in La Dolce Vita di Federico Fellini, si è fatto cenno alla piazza di Lecce trapunta di luci e pizzica per la sfilata di Dior; Ebbene questi eventi non possono essere presi come riferimento in quanto rappresentano anch’essi una forma d’arte, e bellezza! Dall’altro lato si è tirato in ballo Della Valle e la sua cena privata al Colosseo. Potrei essere stato d’accordo, se costui non avesse finanziato per intero il restauro dell’anfiteatro. Ma di cosa stiamo parlando? Davvero pretendiamo di mandare avanti il mondo culturale, con il patrimonio storico-artistico italiano senza aiuti esterni al pubblico? Senza i Medici a pagare, la Venere sarebbe ancora nella sua conchiglia. E così per altre mille committenze. 

    E per il caso specifico Ferragni? niente da dire! Anzi ben venga che i musei si aprano a ciò e si facciano aiutare dai nuovi imprenditori e personalità digitali. Invece di insultare il lavoro e le scelte di alcune persone cerchiamo di centrare il punto e porci domande sia sulla gestione museale, sia sulle nostre scelte giornaliere legate o meno al mondo della cultura. 

    Nel primo ambito bene la pubblicità, ma c’è poi un problema: chi e come pensa alla fruizione del museo? Chi e come accompagna quei giovani incappati davanti alla Venere anche solo per un selfie? Chi e come suggerirà ai visitatori che dietro un’immagine, un quadro e la stessa Venere c’è un bisogno, una richiesta e un invito impellente ad andare oltre? 

    Questa è la sfida vera che trascende chiacchiericci e articoli e per la quale molti educatori, curatori e guide turistiche stanno già lavorando con esperienza, pazienza e amore. Ma c’è da fare di più, e – guarda caso – mancano soldi! Portare persone al museo è un primo passo, ma farle tornare è poi l’obbiettivo: conoscere, approfondire, e lasciare da parte la superficie. 

    Ecco allora il secondo ambito, quello personale e privato: Davvero vogliamo che i musei, la cultura, la bellezza, tornino di tendenza? E intendo nel senso letterale del termine: Tendere, volgersi a, volgere gli occhi, il cuore l’anima a qualcosa. Perché questo tipo di tendenze sono difficili da realizzare e vivere, ma sono ben più durature di una tendenza social e hanno poi il valore aggiunto della formazione, perché quando il nostro animo si volge a qualcosa di bello, prende la sua forma! 

    Sta ad ognuno, con le scelte quotidiane, contribuire a tutto ciò e provare ad andare Oltre!