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    L’Ofelia di Shakespeare e di Millais.

    Un bagno caldo, ma mica tanto! La morte e la vita, l’uomo e la donna, la ragione e la follia, Shakespeare, proprio William Shakespeare e John Everett Millais… un po’ di tutto in questo appuntamento del martedì alla scoperta del capolavoro del movimento preraffaelita: la morte di Ofelia

    Così muore Ofelia. Apparente vittima delle acque e di un salice dai rami troppo fragili per reggere il suo animo. Chi narra sia morta per la sua follia, chi d’amore, chi per la sua ingenua purezza. Forse per tutto questo e forse proprio perchè chiamata Ophelia: il suo nome significa letteralmente aiuto, richiesta d’aiuto!

    Shakespeare trasse questo nome probabilmente da un’opera dell’italiano Jacopo Sannazzaro, e trasfigurò la pastorella arcadica in una giovane ragazza invischiata negli affari di corte. 

    «C’è un salice che cresce di traverso

    a un ruscello e specchia le sue foglie

    nella vitrea corrente; qui ella venne,

    il capo adorno di strane ghirlande

    di ranuncoli, ortiche, margherite […]

    mentre si arrampicava per appendere

    l’erboree sue ghirlande ai rami penduli,

    un ramo, invidioso, s’è spezzato

    e gli erbosi trofei ed ella stessa

    sono caduti nel piangente fiume.

    Le sue vesti, gonfiandosi sull’acqua,

    l’han sostenuta per un poco a galla,

    Ma non per molto, perché le sue vesti

    appesantite dall’acqua assorbita,

    trascinaron la misera dal letto

    del suo canto a una fangosa morte.»

    È attraverso queste parole che Shakespeare lasciò all’epoca e lascia oggi a noi spettatori delle sue tragedie immaginare la morte di Ofelia. Immaginare perché decide di non portarla sulla scena e di farla narrare da Gertrude. Perchè non rappresentare quell’accadimento così tragico?

    Molte le motivazioni, ma forse una tra queste ci permette di squarciare il velo che spesso si pone tra epoche e discipline e fare un salto in avanti di più di duecento anni fino a giungere al dipinto stupefacente di John Everett Millais.

    Ofelia incarna il dissidio eterno tra eros e thanatos, ma in Ofelia l’amore non genera vita, bensì morte. Ofelia, vittima degli eventi, Ofelia vittima di suo padre, suo fratello, Amleto, insomma vittima anche degli uomini. Ofelia che cerca e chiede aiuto nella sua follia, in quella che gli altri chiamano follia, per i suoi amori non corrisposti. Già gli amori, i sentimenti non corrisposti, le aspettative. Shakespeare sa bene che fanno parte della vita di ognuno, e quando si portano sulla scena soltanto con una voce, la fantasia vola e dà vita alle emozioni più profonde: In quella scena Ofelia non è sul palco: È in noi.

    E si avvertiva un tale bisogno di dare una figura a quella scena che pittori, cantanti e poeti da Shakespeare in poi, non si sono mai stancati di raccontarne la storia, dandone immagini innumerevoli, tra le quali la più celebre è certamente quella di John Everett Millais. 

    Descrizione dell’opera

    Il pittore trasse spunto dal racconto shakespeariano e realizzò il dipinto in due fasi. Una prima en plein air ad Ogsmill river in Old Malden Surrey, per osservare, dipingere e abbozzare quello che per Ofelia era il rapporto continuo, vitale, con tutto ciò che era vivo, tutto ciò che era bellezza, eppure con tutto ciò che non era umano: la sua natura e le sue ghirlande. 

    E poi una seconda fase con la modella Elisabeth Siddle, amante e musa di Dante Gabriel Rossetti. L’artista fece posare la modella in una vasca da bagno colma d’acqua e con delle candele sotto per mantenere calda la temperatura (cosa che non avvenne e per la quale la donna si ammalò). 

    Nel quadro c’è una natura che parla per simboli. Il salice espressione di morte e di dolore, i ranuncoli e la fritillaria legati alla passione di Cristo, le ortiche colte dalla follia di Ophelia, le margherite per la sua innocenza e purezza, l’Orchis mascula con un probabile riferimento sessuale per la sua forma. E così molti altri: l’olmaria, i non ti scordar di me, l’adonide, il papavero. Una natura viva che tende a far dimenticare e lasciare in secondo piano la tragedia della giovane la quale, con le braccia aperte e le mani fuori dall’acqua, si lascia andare, morta, al divenire del ruscello e degli eventi. Di lì a poco uscirà dal quadro seguendo la corrente. Qui, ora, ha il viso dell’attesa, l’espressione non più umana della pace.

    Shakespeare lo fa raccontare, ma non vedere; Millais lo rappresentò in un’immagine. Entrambi resero eterna Ofelia: l’Ofelia che è in noi, sconfitta e lacerata dai tempi e le dinamiche che l’uomo sovrascrive all’amore. 

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    La nascita di Ferragni, scusate, di Venere!

    «Nel tempestoso IG in grembo a Schmidt
    si vede negli Uffizi un personaggio accolto,
    sotto diverso volger di obbiettivi
    errar per sale in vesti e firme avolto;
    ed essa nata in atti vaghi e lieti
    è una donzella oh sì d’umano volto,
    da social lascivi spinta a proda,
    gir sovra un nicchio (‘na conchiglia) e par che i fun ne godan!»

    Mai mi sarei atteso di salutare l’arrivo di Chiara Ferragni agli Uffizi mettendo goliardicamente mano alle stanze del Poliziano che accompagnarono negli anni Ottanta del Quattrocento l’elaborazione di due dei più celebri dipinti di Sandro Botticelli: La primavera e La Nascita di Venere.

    L’opera di Sandro Botticelli

    Venere: una perfezione giocata sull’instabilità di un corpo poggiato su un solo piede, il piede che conduce la conchiglia a riva in balia delle onde. Un’istantanea statica che ha in sé il dinamismo pacato della pudicizia. La dea sta approdando sull’isola di Cipro e, come immaginò nelle sue Stanze il Poliziano, cela le sue nudità («la dea premendo colla destra il crino, / coll’altra il dolce pome ricoprissi») in attesa di essere involta in un vestimento floreale ricamato di mirti, primule e rose. È una delle Ore a porgere a Venere il manto, Primavera forse, la stagione degli amori. Nella simmetria bilanciata dell’opera sono infine Zefiro e l’altra figura femminile a lui fisicamente attorta, forse Bora, a sospingere con il loro soffio di rose la dea: un modo quanto più delicato per rendere visibile il vento.

    Ma perchè nel Quattrocento riecheggiare e rappresentare miti antichi narrati da Omero, Lucrezio e Ovidio? Lo studio, le carte, le scoperte, in poche parole l’umanesimo, portò alla riscoperta dell’antico, all’apprezzamento e alla ripresa dei valori eterni visti con la lente dell’uomo che l’uomo era ed è. Quell’uomo che a sua insaputa stava per uscire dal medioevo. 

    Quali sono allora i significati sottesi alla Venere? Venere è dea dell’amore, ma nel Quattrocento la sua immagine ‘pagana’ passa per il filtro neoplatonico e la filosofia ficiniana, accentuando la semplicità e la purezza della sua bellezza, smaterializzando un corpo troppo umano e rendendola immagine pregna della componente estetica dell’humanitas e della bellezza sì, ma dell’anima. Si viene in qualche modo meno ad una profondità visiva e prospettica perchè l’immagine, il canone, entri nell’osservatore e sia veicolo di valori e ideali. I particolari di cui sono colme le opere di Botticelli non sono mai puro estetismo, non sono solamente dettagli di armonizzazione formale e cromatica, bensì rappresentano un vero e proprio codice iconografico con significato preciso e spesso a noi sfuggente, eppure ben leggibile agli occhi dei committenti e dei contemporanei dell’artista.

    L’opera giunse nella collezione medicea presso la villa di Castello di Giovanni e Lorenzo dei Medici cugini di Lorenzo il Magnifico e lì fu esposta (come ci racconta il Vasari) insieme alla celebre Primavera. Di questo ciclo mitologico facevano probabilmente parte anche Venere e Marte e Pallade e il Centauro. Tuttavia il dipinto non fu originariamente realizzato per la villa, e dovette essere lì portato da Cosimo I prima della visita del Vasari. Botticelli lo realizzo intorno al 1486, dopo il rientro da Roma e i lavori nella cappella Sistina.

    Tra i particolari più celebri il volto, sembra ritrarre le fattezze dell’amata Simonetta Vespucci, donna dalla bellezza senza paragoni alla quale gli Uffizi hanno accostato Chiara Ferragni quale donna che incarna oggi una « sorta di divinità contemporanea nell’era dei social ».

    La questione Ferragni

    In poche parole: Ferragni fa uno shooting agli Uffizi per Vogue Honkong e il museo pubblica alcuni scatti sui social, entrando nelle tendenze della macchina infernale di Instagram e ricevendo una grande pubblicità, in particolar modo tra i giovani. Tutto questo ha avuto un effetto positivo nell’immediato: il giorno successivo gli Uffizi hanno comunicato di aver avuto un incremento del 27 % di biglietti venduti a under 25; ma anche un effetto negativo consistente negli insulti e le critiche piovute sulla giovane imprenditrice da ogni dove e, in particolar modo, dal mondo della cultura. 

    Alcuni (s)punti di riflessione che la questione pone: 

    È giusto o meno l’utilizzo dei luoghi di cultura per occasioni simili? Si è tirato in ballo il «Marcello come here» di Anita Eckberg nella Fontana di Trevi in La Dolce Vita di Federico Fellini, si è fatto cenno alla piazza di Lecce trapunta di luci e pizzica per la sfilata di Dior; Ebbene questi eventi non possono essere presi come riferimento in quanto rappresentano anch’essi una forma d’arte, e bellezza! Dall’altro lato si è tirato in ballo Della Valle e la sua cena privata al Colosseo. Potrei essere stato d’accordo, se costui non avesse finanziato per intero il restauro dell’anfiteatro. Ma di cosa stiamo parlando? Davvero pretendiamo di mandare avanti il mondo culturale, con il patrimonio storico-artistico italiano senza aiuti esterni al pubblico? Senza i Medici a pagare, la Venere sarebbe ancora nella sua conchiglia. E così per altre mille committenze. 

    E per il caso specifico Ferragni? niente da dire! Anzi ben venga che i musei si aprano a ciò e si facciano aiutare dai nuovi imprenditori e personalità digitali. Invece di insultare il lavoro e le scelte di alcune persone cerchiamo di centrare il punto e porci domande sia sulla gestione museale, sia sulle nostre scelte giornaliere legate o meno al mondo della cultura. 

    Nel primo ambito bene la pubblicità, ma c’è poi un problema: chi e come pensa alla fruizione del museo? Chi e come accompagna quei giovani incappati davanti alla Venere anche solo per un selfie? Chi e come suggerirà ai visitatori che dietro un’immagine, un quadro e la stessa Venere c’è un bisogno, una richiesta e un invito impellente ad andare oltre? 

    Questa è la sfida vera che trascende chiacchiericci e articoli e per la quale molti educatori, curatori e guide turistiche stanno già lavorando con esperienza, pazienza e amore. Ma c’è da fare di più, e – guarda caso – mancano soldi! Portare persone al museo è un primo passo, ma farle tornare è poi l’obbiettivo: conoscere, approfondire, e lasciare da parte la superficie. 

    Ecco allora il secondo ambito, quello personale e privato: Davvero vogliamo che i musei, la cultura, la bellezza, tornino di tendenza? E intendo nel senso letterale del termine: Tendere, volgersi a, volgere gli occhi, il cuore l’anima a qualcosa. Perché questo tipo di tendenze sono difficili da realizzare e vivere, ma sono ben più durature di una tendenza social e hanno poi il valore aggiunto della formazione, perché quando il nostro animo si volge a qualcosa di bello, prende la sua forma! 

    Sta ad ognuno, con le scelte quotidiane, contribuire a tutto ciò e provare ad andare Oltre!