• Ecce Homo, Caravaggio
    arte,  Caravaggio,  Seicento

    L’Ecce Homo di Madrid: un Caravaggio?

    Si sa, appena si fa il nome di Caravaggio, è subito stupore e notizia. Ed è proprio grazie alla presunta paternità del Merisi, che l’Ecce Homo di Madrid è diventato in poche ore il dipinto del momento. 

    Come è noto, il quadro doveva essere battuto in asta a Madrid l’8 aprile scorso. Nel catalogo della casa d’Asta Ansorena era indicato al lotto 229: L’incoronazione di spine, olio su tela, 111×86 cm, attribuito alla cerchia di Jusepe de Ribera, con una base d’asta molto bassa: 1.500 euro. Forse un po’ troppo bassa.

    L'Ecce Homo di Madrid Caravaggio

    L’Ecce Homo di Madrid: descrizione dell’opera

    Al di là di una balaustra, con un taglio a mezzo busto, vediamo tre figure. Al centro Cristo coronato di spine, il capo leggermente chino e rivolto verso destra. Alle sue spalle lo sgherro che, con un’espressione attonita, fissa lo spettatore mentre compie l’azione di ammantare la figura di Gesù con un telo rosso. Infine, sul lato opposto in primo piano, vediamo la figura di Pilato con una fisionomia segnata e uno sguardo intenso. Anche quest’ultimo personaggio si volge all’osservatore.  

    Una composizione studiata per suscitare un intenso pathos, un’emozione umana vicina agli occhi di chi la guarda. Le tre figure sono pensate come una sola, tutto ruota intorno a Cristo: il protagonista dell’opera.

    La gestualità delle mani, assume in questa tela un valore centrale. Quelle di Pilato, in particolare, ci mostrano la figura del Cristo, l’una indicandolo e l’altra toccandolo.

    L'Ecce Homo di Madrid dettaglio
    dettaglio delle mani di Pilato

    Scopri il canale Youtube Oltre l’Arte

    Ogni settimana nuovi contenuti artistici!


    Le fonti ci dicono…

    Proviamo ora a ricostruire, attraverso le fonti storiche, quella che potrebbe essere la storia di questo dipinto.

    Nella biografia del Cigoli, scritta dal nipote Giovan Battista Cardi (1628) si fa riferimento ad un concorso voluto dalla Famiglia Massimi per la realizzazione di un Ecce Homo.

    Tale concorso interessò Caravaggio, il Cigoli e il Passignano.

    Inoltre sappiamo dalle note in alcune carte d’archivio della Famiglia Massimi a Roma che:

    «Io Michel Ang.lo Merisi da Caravaggio mi obligo a pingere all Ill.mo Massimo Massimi per essere stato pagato un quadro di valore e grandezza come è quello ch’io gli feci già della Incoronazione di Crixto per il primo di Agosto 1605. In fede ò scritto e sottoscritto di mia mano questa, questo dì 25 Giunio 1605.»

    (nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)

    «A dì marzo 1607 io Lodovico di Giambattista Cigoli o ricevuto da Nobili Signor Massimo Massimi scudi venticinque a buon conto di un quadro grande compagno di uno altra mano del sig.r Michelagniolo Caravaggio resto contanti scudi sopradetto Giovanni Massarelli suo servitore et in fede mia o scritto q.o di suddetto in Roma. Io Lodovico Cigoli.»

    (nota rinvenuta da Rossana Barbiellini nel 1987 presso l’archivio della Famiglia Massimi a Roma)

    Come racconta Giovan Battista Cardi il quadro vincitore fu proprio quello dello zio, il Cigoli, oggi conservato a Palazzo Pitti mentre gli altri due dipinti furono venduti.

    Cigoli Ecce Homo
    Cigoli, Ecce Homo 1607, Palazzo Pitti

    Inoltre il biografo Giovan Pietro Bellori nelle sue Vita de’ pittori, scultori et architetti moderni del 1672 scrisse così:

    «Michel Angiolo Merisi da Caravaggio…… Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispagna»

    Alla luce di queste testimonianze è possibile affermare che Caravaggio eseguì un Ecce Homo nel 1605, ma non sappiamo con certezza se si tratti proprio dell’Ecce Homo di Madrid.

    Attribuzione di Roberto Longhi

    Nel 1954 Roberto Longhi identificò come l’Ecce Homo Massimi il dipinto oggi conservato al Museo di Palazzo Bianco di Genova. Molti gli studiosi non concordi con tale attribuzione. Nonostante sia un dipinto che sicuramente guardi al Merisi, esso manifesta delle tonalità e dei tratti aspri, lontani dalla sensibilità pittorica del maestro. 

    Ecce Homo di Genova Caravaggio
    Attribuito a Caravaggio da Longhi
    Ecce Homo, 1605, Museo di Palazzo Bianco di Genova

    L’Ecce Homo di Madrid è di Caravaggio

    Invece per l’Ecce Homo di Madrid molti sono stati gli elementi che hanno convinto il mondo dell’arte. Così si è intonati tutti insieme e a gran voce il nome di Caravaggio, seppur con entusiasmi diversi. 

    Tra i più convinti, solo per citarne alcuni, vi sono: Massimo Pulini, Vittorio Sgarbi, Dario Pappalardo, Maria Cristina Terzaghi, Stefano Causa, e Rossella Vodret. 

    I dettagli chiave

    Secondo gli studiosi i dettagli rivelatori dello stile di Caravaggio sono da rintracciarsi nelle pennellate dense del manto purpureo (che sembrano richiamare la Salomè del Prado), nella costruzione di luci e ombre per esaltare la figura centrale del Cristo, nelle mani protagoniste (che con quel impercettibile tocco di luce sull’unghia del pollice di Pilato attraggono lo sguardo dello spettatore). E ancora: nelle labbra e negli occhi di Cristo (affine al David di Villa Borghese) e  in quel dettaglio morelliano dell’orecchio della figura in primo piano, con la chiarezza di delineazione e posizionamento tipica di Caravaggio, come sottolinea in un articolo Keith Christiansen.


    Iscriviti alla nostra Newsletter

    Ricevi la tua dose settimanale di bellezza!


    Salomé Caravaggio
    Salomè, 1609 ca. Museo del Prado Madrid
    David Caravaggio
    David, 1610 ca. Galleria Borghese Roma

    La tecnica pittorica

    Dall’analisi di alcune macrofotografie si sono individuati degli abbozzi di ‘biacca a zig-zag’, un elemento nient’affatto marginale secondo la dottoressa Rossella Vodret. Infatti questo pigmento e le modalità del suo utilizzo si riscontra in alcune opere di Caravaggio a partire dal 1605, come il San Girolamo Borghese, il San Girolamo di Montserrat, la Flagellazione di Capodimonte. Tali abbozzi di biacca venivano impiegati dal Merisi per fissare, sulla preparazione scura, le zone da mettere in luce. 

    San Girolamo Caravaggio Galleria Borghese Roma
    San Girolamo, 1606 ca. Galleria Borghese Roma
    San Girolamo in meditazione
    San Girolamo in meditazione, 1605 ca. Museo del Monastero de Santa Maria, Montserrat
    Flagellazione, 1606, Museo di Capodimonte Napoli Caravaggio
    Flagellazione, 1606, Museo di Capodimonte Napoli

    Ipotesi di provenienza dell’Ecce homo di Madrid

    Vodret, insieme ad altri studiosi, non è concorde nel riconoscere la tela di Madrid come l’Ecce Homo Massimo (1605). Secondo la studiosa una possibile provenienza potrebbe risalire dalla raccolta di García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, che fu viceré di Napoli tra il 1653 e il 1659. Da alcuni inventari è noto che il viceré possedeva due tele originali di Caravaggio: una Salomè (di Madrid) e un Ecce Homo con soldato e Pilato che misurava 5 palmi. I dipinti sarebbero poi arrivati in Spagna in seguito alla fine dell’incarico come viceré.

    Recentemente sul il quotidiano El País sono stati resi noti gli attuali proprietari dell’opera: i Pérez de Castro Méndez.

    Una famiglia madrilena già nota al mondo dell’arte, in quanto responsabile della direzione della scuola di disegno e moda Iade di Madrid

    La loro discendenza risale a Evaristo Peréz de Castro, personaggio politico e redattore della Costituzione di Cadice del 1812. Il casato sarebbe entrato in possesso della tela nel 1823, ricevendolo in cambio di un’ opera di Alonso Canodalla dalla Real Academia di San Fernando, dove il Cristo dipinto era registrato come un “Ecce-Hommo con dos saiones de Carabaggio”.

    Un dipinto di impianto caravaggesco

    Tra i pareri più ponderati e prudenti troviamo quello di Tomaso Montanari il quale afferma in un suo articolo sul Fatto Quotidiano del 9 aprile:

    «Il coro degli specialisti che hanno visto l’opera pare unanimemente entusiasta. Una cosa risulta chiara anche dalle fotografie disponibili: la sua struttura è tipicamente caravaggesca. È certamente isterico tutto il carrozzone allestito nella sala parto mediatica che da Madrid si estende a tutte le redazioni del mondo: dalla rivendicazione della scoperta (in un imbarazzante sovrapporsi di: ‘l’ho detto prima io!’), al gioco dei rimbalzi tra siti, giornali, televisioni (…). Oggi, però, è concreta la possibilità che, alla fine, un Caravaggio nasca davvero. A suggerirlo sono la qualità, la forza, la presenza dell’opera stessa». 

    Montanari afferma inoltre :

    «L’invenzione del quadro (cioè la sua struttura, la composizione, la disposizione delle figure e la costruzione dei loro gesti) è tipicamente caravaggesca (…). La capacità di bloccare un attimo, raggiungendo il massimo del pathos attraverso la combinazione più drammatica possibile di poche mezze figure è la quintessenza dell’ultimo Caravaggio»

    Non tutti concordano con l’ipotesi Caravaggio

    E infine rimangono delle voci fuori dal coro. Una tra tutte quella di Nicola Spinosa, tra i massimi esperti delle pittura napoletana del Seicento. Quest’ultimo dissente dall’attribuzione al Merisi propendendo più per un caravaggista della prima ora, forse non proprio Ribera.

    Ribera, Ecce Homo
    Ribera, Ecce Homo, 1620 ca.
    Caracciolo Ecce homo
    Battistello Caracciolo, Ecce Homo 1611 ca.

    Dunque a chi dare ragione? 

    Solo il tempo ce lo dirà. Solamente uno studio accurato e approfondito, supportato dagli strumenti scientifici dalle indagini diagnostiche potranno sostenere l’ipotesi Caravaggio o smentirla.

    In ogni caso, che si tratti di un Caravaggio o no, l’Ecce Homo di Madrid è sicuramente un’opera di raffinata qualità pittorica ed emotiva. L’opera di un grande artista, quale esso sia. 

    L'Ecce Homo di Madrid Caravaggio
    L’Ecce Homo di Madrid

    articoli di riferimento:

    https://www.finestresullarte.info/interviste/rossella-vodret-ecco-perche-ecce-homo-potrebbe-essere-di-caravaggio
    https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/pi-caravaggio-di-cos-si-muore/135824.html
    https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/il-caravaggio-di-tutti/135831.html
    https://www.globalist.it/arti/2021/04/11/ecce-caravaggio-perche-gli-studiosi-dicono-che-il-quadro-di-madrid-e-suo-2078226.html
    https://www.repubblica.it/cultura/2021/04/07/news/caravaggio_ecce_homo_ritrovato_spagna-295457077/
    https://www.ilgiornale.it/news/cronache/cos-ho-salvato-caravaggio-dallasta-1937000.html
    https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/04/09/quando-si-scopre-un-caravaggio/6159965/
    https://www.repubblica.it/cultura/2021/04/23/newscaravaggio_proprietari_arte_mercato_vendita-297756838/
  • arte,  attualità,  rinascimento

    Raffaello Sanzio: la Fornarina e la Trasfigurazione

    La Trasfigurazione e la Fornarina sono due tra le opere più celebri di Raffaello Sanzio e sono le due tele più vicine alla sua morte. Scopriamo perchè!

    Roma. Era il 2 novembre di questo 2020 quando è venuto a mancare Gigi Proietti, un genio che per ironia della sorte, è morto il giorno del suo compleanno. Il 2 novembre, il giorno dei morti. 

    Roma. Era il 6 aprile 1520, cinquecento anni fa, quando è venuto a mancare Raffaello Sanzio, un altro genio, che l’ironia della sorte ha voluto morisse il giorno del suo compleanno. In quell’anno, guarda caso, venerdì santo.

    Le ultime opere di Raffaello

    In questo ultimo video della miniserie dedicata al divin pittore scopriamo due delle ultime opere di Raffaello: la Fornarina e la Trasfigurazione. Ci rifiuteremo inoltre di parlare di ‘fine’ di Raffaello, perché è proprio alla luce del percorso che abbiamo fatto che è possibile chiedersi: perché parlare di inizi (al plurale) e di fine (al singolare)?

    La morte di Raffaello Sanzio

    La morte di Raffaello fu la tragedia del 1520. Il pittore lasciò le sue spoglie divine per mostrarsi anch’egli soggetto all’azione della morte. Da quel giorno ebbe origine un processo di ‘canonizzazione’ artistica. Insomma, non condizioni migliori potevano attendersi coloro che trasformarono la storia di Raffaello in mito. Poiché il 6 aprile era anche la data, ricordata dai colti, dell’incontro di Petrarca con Laura, ma fu anche il giorno in cui ella morì, sempre di venerdì santo. 

    Tutto in qualche modo sarebbe tornato nelle narrazioni, mentre nella spettatrice silenziosa che Roma era la notizia si propagò in tempi lampo, trasmessa per lettere e per sonetti. Di giorno in giorno rimbombava per tutta Italia l’annuncio della prematura e già romanzata scomparsa. Raffaello morto lo stesso giorno di Cristo, e scrivevano: 

    «Perchè sorprendersi se tu moristi nel giorno in cui Cristo morì?

    Questi era il Dio della Natura, tu eri il Dio dell’arte»

    La Trasfigurazione di Cristo di Raffaello

    Ma veniamo alle opere. Giorgio Vasari racconta che il corpo di Raffaello fu portato nella sala ove il pittore stava terminando la Trasfigurazione di Cristo «la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a chiunque quivi guardava». Questa fu l’ultima opera di Raffaello, probabilmente terminata dai suoi allievi, come i numerosissimi altri progetti ai quali egli stava lavorando. Fu commissionata alcuni anni prima dal cardinale Giulio de’ Medici il quale aveva richiesto un’opera per la medesima chiesa narbonense a Sebastiano del Piombo: a quest’ultimo spettava il soggetto della Resurrezione di Lazzaro, mentre a Raffaello la Trasfigurazione di Cristo

    Come però riempire e conferire dinamismo ad un episodio così lirico? Come poter inserire nell’opera passioni e sentimenti umani senza togliere significato alla rivelazione divina?. Perché nella sfida, forse un po’ romanzata con il duo Michelangelo-Sebastiano del Piombo, Raffaello doveva catturare e stupire. Doveva, e questo ci piace, andare oltre.

    Descrizione dell’opera

    La trasfigurazione di Raffaello

    Il pittore fece allora ciò che meglio gli riusciva, disgiungere per congiungere, dividere per unire, realizzando una composizione bipartita e al medesimo tempo unica. Cristo domina il dipinto, risultando centro della parte superiore. Sole irradiante nel suo bianco splendente e incorniciato in questa nube che è luce e ombra. Un Cristo che si affida al cielo, con le mani levate. Ai lati l’apparizione di Mosè ed Elia nelle loro vesti scosse dal vento, nelle pose d’angeli senz’ali, con i volti rivolti al figlio di Dio. Due figure a sinistra, due santi, riescono a tenere gli occhi aperti e partecipare a quella visione, Felicissimo e Agapito oppure Giusto e Pastore. Spostandoci in basso un diaframma divide la scena, una cima di monte simile a grande cuscino erboso. Su questa sono distesi e accovacciati i tre apostoli, Giacomo, Pietro e Giovanni. Il primo chiuso nel terrore, gli altri travolti dalla luce.

    Scendendo poi dal monte Tabor il vangelo di Matteo narra dell’incontro di Gesù con una piccola folla di persone. Tra costoro un padre disperato per le condizioni del figlio, un fanciullo ossesso, epilettico. Ecco allora che le braccia scompostamente allargate del giovane sorretto dal padre, dialogano opponendosi con quelle del Cristo, dalle quali riceverà la salvezza. È questo giovane il centro compositivo della parte sottostante: a lui sono rivolti gli sguardi, e le dita. È la sua condizione a destare preoccupazione, tenerezza, impotenza, disperazione. Un’enciclopedia di moti dell’anima invade questa parte del dipinto, più terrena, più prossima allo spettatore.

    La luce nella Trasfigurazione

    La salvezza discende dall’alto e si manifesta con calma serafica in un dirompete bagliore. Sopra luci soffuse che si originano dalla nube. Sotto una luce più spigolosa e marcata che dà origine a un chiaroscuro colmo di pathos. Sullo sfondo, oltre il monte Tabor, un tramonto.

    La Fornarina di Raffaello Sanzio

    La Fornarina di Raffaello

    Un’altra opera, oltre alla Trasfigurazione che fu ritrovata nello studio di Raffaello dopo la sua morte, è il celebre ritratto di donna a mezzobusto passato alla nostra storia con il nome terreno di Fornarina. Si crede che Raffaello in questo dipinto ritrasse la donna amata, tale Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere. Eppure il termine fornarina inizia a comparire nei documenti solamente nel XVIII secolo. Osserviamo una donna reale sì, ma pure incarnazione di bellezza, un ritratto, ma perché non un’allegoria di amore? Potremmo scorgervi una Venere forse, seduta tra il mirto, pianta a lei sacra. In questa donna divina cosparsa di luce soffusa e colori perlacei, adorna di gioielli e veli di fine trasparenza, Raffaello lasciò il suo nome: Raphael Urbinas. 

    La Trasfigurazione e la Fornarina di Raffaello: gli inizi e le ‘fini’

    Gli inizi di Raffaello portarono a tutto ciò ed è inconcepibile parlare di fine. Per Raffaello, ma per ciascun uomo parlerei di fini. Tanti i progetti avviati e pensati ai quali i suoi allievi, tra i più celebri Giulio Romano e Giovan Francesco Pierini, diedero poi vita. Tante le idee, numerose le innovazioni, innumerevoli le figure che da allora in avanti cambiarono e plasmano oggi la vita delle persone. Le ‘fini’ dunque di Raffaello.

    Infine Roma, Raffaello e Gigi Proietti

    Gigi proietti al teatro globe

    Avevamo iniziato con le coincidenze. Concludiamo con un’analogia che coincidenza non è: l’amore di Roma per Gigi Proietti e le parole di coloro che raccontarono la morte di Raffaello:

    «La cui morte è doluto a tutti di Roma»

    «Con universal dolore di tutti»

    Quella Roma tanto amata da Raffaello da scrivere al papa queste parole:

    «Non debe, adonque Padre Santissimo, esser tra li ultimi pensieri di Vostra Santitate, lo haver cura che quello poco che resta di questa antica madre de la gloria e grandezza italiana…»

    Quella Roma che dona e che toglie. Un po’ come questo 2020. Però scusate, Gigi glie lo avrebbe detto, col sorriso ma, a questo 2020 glie lo avrebbe detto: …nun me rompe er ca’!

    Ciao Raffaello! Ciao Gigi! Arrivederci!

  • arte,  attualità,  Caravaggio,  musei

    Il riposo durante la fuga in Egitto di Michelangelo Merisi da Caravaggio

    Iscriviti al canale Youtube

    Oltre l’arte

    Ogni martedì un breve video, una pillola d’arte e di bellezza!

    Il racconto di oggi inizia nell’incertezza. Nella stessa incertezza che è propria di alcuni della vita e delle opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Un po’ come se il chiaroscuro pervicace delle sue tele si riverberasse, aspro e iconico, sulla persona e sull’artista. Questa tela, Il riposo durante la fuga in Egitto, è una delle prime opere a noi note del giovane pittore lombardo giunto a Roma. Fu probabilmente commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini (come sostiene Mina Gregori) e, di lì a pochi anni, entrò in possesso dell’accentratrice donna Olimpia Maidalchini (ve la ricordate? ne abbiamo parlato nel video dedicato alla Fontana dei Quattro fiumi del Bernini). Oggi è infatti possibile ammirarla a Roma presso la Galleria Doria Pamphili.

    Caravaggio giunse a Roma dopo aver percorso quelle che Roberto Longhi definì le ‘vie dei Campi’, conoscendo e facendo esperienza dell’arte dei fratelli Campi. Sopprattutto però, arricchendosi alla scuola dell’arte lombarda del Lotto, del Moretto, del Moroni e del Savoldo.

    Solo ripercorrendo queste ‘vie’ possiamo contestualizzare quella che altrimenti potrebbe sembrare una figura artistica estranea alla scena della pittura a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Così si avrà a comprendere un Caravaggio figlio del suo tempo, e non del nostro.

    Ma veniamo finalmente all’opera: una tela in formato orizzontale, seppure non troppo, la cui lettura la facciamo partire dal basso, dalla terra.

    Vediamo dapprima un selciato sulla destra coperto di erbe e, spostandoci verso sinistra, osserviamo il disporsi, forse un po’ troppo compendiario, di sassi e foglie secche. È tra questi oggetti che poggiano i piedi dei prtagonisti, sapientemente alternati alle vesti. piedi e panneggi, panneggi e piedi e… fiaschetta! immancabile! 

    E dai panneggi si sale alle ginocchia stanche del San Giuseppe, attorcigliandoci anche noi come il panno bianco attorno alla sinuosa figura stante dell’angelo e abbandonandoci poi al manto soffice della Vergine, anch’esso perso nella natura verdeggiante e rigogliosa.

    Saliamo ancora e in quest’ambiente bucolico, che ben poco ha del paesaggio egiziano e pare piuttosto uno scorcio di campagna romana: la Vergine si è assopita. Sfinita dal viaggio e nella continua cura del figlio, il figlio abbraccia e avvolge. Rimane un profilo di bambino di dolcezza indicibile e un volto in scorcio magistrale, che riporta alla mente la figura della Maddalena penitente. Quest’ultima è un’opera realizzata nello stesso anno (1597) e plausibilmente per lo stesso committente. Inoltre, dietro le vesti e il personaggio di Maria di Maddalena, si cela in entrambi i casi la giovane modella Anna Bianchini.

    Procedendo ancora verso sinistra la scena è interrotta da una nota di naturalismo puntuale: le ali rondine dell’angelo. Ali che Caravaggio riprese dal vero, dai modelli usati nelle rappresentazioni dell’epoca e, forse, dalla sua stessa memoria e dalle immagini degli angeli del Lotto nella pala di San Bernardino in Pignolo.

    L’angelo sembra suonare una pausa, con il volto e l’archetto leggermente sollevati dal violino. Lo sguardo è fisso sullo spartito, leggibile e riconoscibile. Si tratta di un brano del musicista fiammingo Noel Bauldewijn composto nel 1519 e ispirato al Cantico dei Cantici. Maria è qui madre e sposa.

    Riposo durante la fuga in Egitto, particolare

    Ed eccoci a San Giuseppe ‘leggio umano’: gli angeli di Caravaggio sembrano non avere memoria e necessitano sovente di leggii e spartiti. Guardando con attenzione ci accorgiamo che lo stesso modello fu prima San Matteo e Abramo e che siede ora su un sacco più volte usato dal Caravaggio per allestire le scene. Questi sono particolari che rendono Caravaggio vivo e tangibile. Che ci mostrano il dietro le quinte e un pittore che sceglie i suoi modelli, che li fa posare utilizzando oggetti di scena e, che in questo caso, ‘fa bosco’ nel suo studio.

    Il San Giuseppe è in questo dipinto estasiato dalla grazia del giovane angelo. C’è grazia di certo nella figura, ma grazia è in quello che egli suona e nelle promesse che questo brano porta con sé:

    Quanto sei bella e quanto sei graziosa, Carissima mia, in mezzo alle delizie. La tua statura somiglia a una palma e a grappoli somigliano i tuoi seni. Il tuo capo è simile al monte Carmelo […] Una torre d’avorio è il collo tuo.[…] Vediamo se la vigna è tutta in fiore, se i fiori partoriscono la frutta, se sono tutti in fiore i melograni. I seni miei in quel luogo ti darò.

    Quanto è umano questo Giuseppe che, non potendo gesticolare con le mani, lo fa coi piedi, regalandoci un brano di pittura eterno. 

    Giungendo nell’angolo in alto a sinistra ci accorgiamo che è il momento dell’asino (immancabile nell’iconografia della Fuga in Egitto). Costretto anche lui nel quadro fa da fondale ‘peloso’ al San Giuseppe, mentre spostandoci verso destra, diviene anch’esso protagonista col suo occhione diretto dritto verso lo spettatore. Di qui i capelli scompigliati del giovane, al quale Caravaggio ci ha abituato, e la natura, di querce e graminacee, fino a giù sulla destra dove si apre un paesaggio collinare. Il pittore dà all’intera composizione una collocazione reale e plausibile, un particolare nient’affatto scontato nella raffigurazione di una scena biblica. 

    Caravaggio e il suo committente scelsero di rappresentare il più tragico episodio dell’infanzia di Gesù mettendo in risalto la quotidianità e la familiarità delle relazioni. E, in questa quotidianità, dare spazio e valore a quell’unguento profumato che la musica, l’arte, la poesia possono essere nella vita di ciascuno.

    E, se l’angelo stesse veramente suonando un pausa, potremmo trarre da qui un vivido appiglio. Dovremmo cambiare prospettiva e vivere le pause delle nostre vite, questa grande pausa che il Covid sembra essere e che tutti accomuna, come pause ‘da suonare’ in attesa e con il fine della musica. Pause da suonare anelando al momento in cui l’archetto accarezzerà di nuovo le corde di quel violino. La mano, come sempre ci insegna Caravaggio, è la nostra!

  • arte,  attualità

    La fontana dei quattro fiumi: Bernini, le donne e il papa ringiovanito

    Anche l’arte e la vicenda di Bernini possono raccontarci qualcosa riguardo la questione di genere e l’essenza della donna nella storia e nella nostra società. Questo breve e intenso viaggio lo potremmo far partire dalla Fontana dei quattro fiumi. Vediamo perché…

    La commissione dell’opera

    Una versione dei fatti sostiene che Bernini ottenne la commissione di questo capolavoro di scultura barocca grazie ad una donna, anzi in un certo senso comprandosi i favori di una donna: Olimpia Maidalchini. La tradizione vuole che l’artista abbia donato alla cognata di papa Innocenzo X, celebre per la sua avidità, un bozzetto della fontana realizzato interamente in argento. Un racconto intriso di maldicenza e luoghi comuni. Una cosa nient’affatto rara in aneddoti e dicerie che han trovato poi lo scritto della carta e che si sono tramandati fino a noi.

    Velazquez Olimpia Maidalchini
    Diego Velazquez, Ritratto di Donna Olimpia Maicalchini.

    Un’altra versione dei fatti, riportata dalle biografie berniniane, racconta invece l’ostinazione del papa Pamphili a non commissionare la fontana al Bernini poiché egli era lo scultore di che lo aveva preceduto sul soglio pontificio (Urbano VIII Barberini). Famiglia, i Barberini, che era finita in una sorta di ‘tangentopoli’.

    Papa Innocenzo X tuttavia, dopo aver visto il modello in legno della fontana portato nel suo palazzo dal cardinal Ludovisi, avrebbe dovuto lasciar da parte questa sua ostinazione e ritirare la parola presa col Borromini. Avrebbe poi proferito la celebre frase: «Se non si vogliono far fare lavori al Bernini non si devono vedere i suoi progetti».

    La Fontana dei quattro fiumi per Piazza Navona

    Insomma un’altra storia tutta al maschile, e se c’è una donna c’è perché comprata. Come tutta al maschile è la fontana, non solo nei suoi soggetti bensì anche, probabilmente, nella realizzazione. Insomma in quella piazza che tanto bella era e tanto bella è, la cui forma deriva dal circo di Domiziano e il cui nome si origina da in agone (luogo destinato alle competizioni e ai giochi), Bernini voleva riconquistare il centro della scena. Lo fece, mettendo mano al cardine del potere papale che, in quel momento, era appunto Piazza Navona. Lì Innocenzo X stava realizzando il suo palazzo papale e la sua chiesa, con i lavori affidati a Borromini e Pietro da Cortona. Mancava solo il Bernini, al quale nel 1647 fu affidato il compito di costruire questa fontana in sostituzione degli abbeveratoi già esistenti e alimentati con l’acqua della fonte Vergine.

    La Fontana dei quattro fiumi: girare attorno alla fonte

    Bernini reinventa il concetto di fontana distaccandosi dal lessico decorativo delle fonti rinascimentali e portando al centro della piazza lo spettacolo scolpito su di un enorme monolite in travertino fatto giungere da Tivoli. Questo, si imposta su una vasca molto bassa e ospita i più celebri quattro fiumi del mondo allora conosciuto: Il Gange, Il Rio de la Plata, Il Danubio e Il Nilo.

    Fontana Quattro fiumi Bernini

    La diversità dei continenti è sottolineata dalle fattezze dei volti e amplificata dalle mani diverse dei quattro artisti che realizzarono le statue, rigorosamente in marmo. Il pellegrino o chiunque si trovasse a girare attorno alla fonte poteva avere esperienza del mondo, delle diversità umane e di quelle animali e vegetali. 

    È proprio su questa varietà che si innestava magistralmente l’obelisco finto egiziano fatto realizzare da Domiziano, preso dal circo di Massenzio e cristianizzato mediante la colomba in bronzo posta sulla vetta e lo stemma, alla base, della famiglia Pamphili. Il papa, all’indomani della guerra dei Trent’anni e della pace di Westfalia, si trova a dominare tutto l’orbe. Nella propaganda pontificia quale monumento più appropriato: La Fontana dei quattro fiumi è simbolo della Chiesa erede della romanità, colei che dona alla città l’acqua che è vita e salvezza

    Girare attorno alla fonte consisteva inoltre un’esperienza sinestetica che permetteva alle genti di conoscere o riconoscere specie animali e vegetali ignote alla gran parte del popolo romano. Ai giorni nostri, in un certo senso, la fontana è morta: non ha più la veridicità che il muschio e le erbe le conferivano e non più animali veri lì attorno si trovano a confondersi con le creazioni scultoree.

    Gli anni di vita accresciuti al papa

    Insomma il Cavalier Bernini, che l’abbia comprata o meno questa commissione, escogitò una meravigliosa sinestesia artistica che tuttora stupisce e mai stanca di regalare vita. Non più certo in quanto dispensatrice d’acqua, bensì in quanto fonte gratuita di bellezza. E la bellezza dona gioia e cambia la vita. Pensate che lo riconobbe anche il papa il quale, allo sgorgare dell’acqua, esclamò: 

    «Cavalier Bernini, con questa vostra piacevolezza ci avete accresciuto di dieci anni di vita!»

    Ma che c’entra tutto ciò con la questione di genere? Finora vi ho parlato di molti uomini e d’una donna ‘corrotta’ (così dicono le malelingue) da una montagna d’argento. 

    La donna che sfidò Bernini

    Per conoscere la storia di una donna, che oggi riterremmo esemplare nel suo sindacare, dobbiamo abbandonare la Fontana dei Quattro fiumi e andare dritti al momento della realizzazione dell’ultimo capolavoro di Gian Lorenzo Bernini: il Tabernacolo del Santissimo Sacramento nella basilica di San Pietro in Vaticano. Dai documenti d’archivio della Fabbrica di San Pietro emerge la figura di una donna che diede filo da torcere al Cavalier Bernini e al papa stesso. Francesca Bresciani, scelta dal celebre scultore e dalla fabbrica di San Pietro per la lavorazione del lapislazzuli, realizzò in maniera magistrale la decorazione di due terzi del tabernacolo e, in particolare, fu lei a realizzare le parti più complesse e maggiormente visibili.

    Tabernacolo Santissimo sacramento Bernini
    Gian Lorenzo Bernini, Tabernacolo del Santissimo Sacramento.

    Ecco che, al momento del pagamento, Francesca Bresciani richiese 1940 scudi, mentre Bernini avrebbe valutato il lavoro per 734 scudi (una riduzione del 60%). La donna cosciente delle sue competenze scrisse al cardinal Massimo chiedendo che il conto «fosse rivisto da persone intendenti l’esercizio, poiché il Cavalier Bernini si intende di lavoro di pietra e non di quello di gioie».

    Scopri altre donne protagoniste di bellezza nella nostra rubrica Donne d’Arte

    Insomma le carte parlano e insieme alle storie dei grandi artisti ci sono le storie di molte donne che praticarono e furono protagoniste dell’arte e della bellezza. Molte di quelle storie ancora esistono e vanno raccontate, perché se il racconto della storia è spesso maschilista, la storia in sé non è né uomo né donna, è umana.