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    Il dono del mantello, Giotto e (papa) Francesco.

    Ieri, oggi e domani.

    Tre momenti che trovano in Assisi un punto di congiunzione, in particolar modo in questi giorni piovosi di fine settembre e inizio ottobre. Ieri: Giotto nel ciclo pittorico dedicato alla vita di San Francesco nella sua basilica. Oggi: l’istallazione Eldorato realizzata da Giovanni de Gara sulla soglia della Specialis Ecclesia. Domani: La firma con la quale papa Francesco, venendo ad Assisi il 3 ottobre, emanerà la sua enciclica Fratelli tutti. Non una cosa a caso vediamo perchè…

    La commissione a Giotto

    Siamo alle soglie del Trecento (1297 ca.) , quando viene commissionato a Giotto e alla sua bottega uno dei più importanti lavori, in termini pratici e simbolici, di quell’epoca: la decorazione delle pareti della navata della basilica papale di San Francesco. Il programma iconografico doveva narrare per immagini e parole le storie della vita terrena e i miracoli dell’alter Christus, di colui che rinnovò la spiritualità cristiana facendosi minor. Il ciclo pittorico è inserito in una struttura prospettica di porticato che già Cimabue utilizzò nel transetto della medesima basilica, ma che Giotto innovò amplificandone la profondità e facendo convergere il punto di fuga al centro delle scene centrali di ciascuna campata. Tre o quattro riquadri per campata più due ai lati del portale, per un totale di ventotto scene.

    Il Dono del mantello

    La prima ad essere dipinta, sebbene sia la seconda in ordine di lettura del ciclo che diparte dall’altare e all’altare torna, è la celebre azione del Dono del mantello. Un episodio narrato nella Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio (testo bio-agiografico preso come riferimento per l’intero ciclo pittorico): 

    «Quando il beato Francesco si incontrò con un cavaliere, nobile ma povero e malvestito, dalla cui indigenza mosso a compassione per affettuosa pietà, quello subito spogliatosi, rivestì» (Bonaventura da Bagnoregio, Legenda Maior 1, 2)

    Descrizione dell’affresco

    Giotto, Il dono del mantello, Basilica di San Francesco

    I personaggi sono collocati in primo piano, su una sorta di proscenio, quasi irrealmente sospesi in una composizione spaziale che nelle scene successive andrà assumendo maggior rigore e respiro. Al centro Francesco, ancora vestito di un prezioso blu (oggi sbiadito), sta donando il suo mantello ad un uomo. Non a un lebbroso, non a un mendicante. Bensì a un nobile caduto in disgrazia, questo raccontano le fonti e questo si evince da copricapo soppannato in vaio e dal rosso delle vesti. Sulla sinistra protagonista è un cavallo, un tempo bianco lucente, un colore alteratosi come i bianchi del ciclo di Cimabue a pochi passi da lì.

    In secondo piano, ancorati all’immagine bizantino-medievale della raffigurazione ‘a gradoni’ e privi di prospettiva, dominano due colli. L’uno (sulla sinistra) sul quale campeggia la città di Assisi; l’altro, in posizione opposta, con probabilmente raffigurata l’Abbazia di San Benedetto al Monte Subasio. Quest’ultimo un luogo di grande valore storico-artistico, che oggi purtroppo versa in stato di abbandono. I pochi alberi infine sono segnacolo dei boschi che dominavano allora questi colli. Il medioevo non si dilunga nella narrazione e rappresenta, a volte, la parte per il tutto: l’albero per il bosco. 

    La composizione e la testa ‘decentrata’

    Ma a livello compositivo il focus dell’opera è l’aureola di Francesco, sulla quale convergono le diagonali del calare dei colli. La testa del giovane però sembra fuggire da questo centro, perché è come se alla centralità statica preferisse il decentramento dell’azione, dando origine ad una serie di linee e movimenti che conferiscono naturalezza a gesti e sguardi. 

    Ad accentuare il movimento è anche la linea curva del collo del cavallo alle spalle di Francesco. Un animale status simbol e allusione al suo desiderato futuro da cavaliere, ripreso anche nella scena successiva del Sogno delle armi. Ma perché ritrarre questa scena e non l’abbraccio con il lebbroso, un momento centrale nella conversione del santo e da lui citato anche nel Testamento? 

    Di certo più si confaceva un soggetto simile ad una basilica che era vocata ad accogliere il papa e personaggi importanti e tuttavia agli spettatori istruiti di questa scena non poteva non tornare alla mente l’incontro con il lebbroso. Poiché proprio quest’ultimo, narrano le fonti, avvenne al di fuori delle mura cittadine, in un’ambiente probabilmente simile a quello qui raffigurato. Contaminazioni di fonti che dunque si fondono in questo affresco a testimonianza di una vita, la quale anche prima della conversione era destinata alla santità. 

    Eldorato ad Assisi

    Giovanni de Gara, Eldorato, Assisi

    Un procedimento simile è alla base dell’opera d’arte / istallazione Eldorato di Giovanni de Gara. L’artista ha rivestito in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato le porte della Basilica di San Francesco con coperte termiche. L’oro è simbolo di ricchezza, è il colore dei cieli medievali, è il pigmento della luce ed è il metallo delle porte della salvezza. Ma non è unicamente nel colore la suggestione, seppure lo possa essere esteticamente, ma è nel materiale termico, nella funzione di quei mantelli che abbracciano i profughi, i migranti, gli ultimi in cerca di un’eldorado. È un’immagine di enorme forza espressiva che che crea un cortocircuito nella nostra memoria di immagini, (per molti di noi) solo di immagini e non di esperienze vissute. 

    All’ingresso della basilica di colui che abbracciava il lebbroso, hanno trovato posto questi teli aurei, a memoria di un abbraccio sempre necessario e a ricordo della chiamata ad essere noi, oggi, Francesco.

    Questi due mantelli, quello della scena giottesca e i ‘teli’ di de Gara, sono e saranno presumibilmente al centro della nuova enciclica di Papa Francesco: Fratelli tutti. È la prima volta che un papa sceglie il nome Francesco ed è un fatto eccezionale che egli firmi un’enciclica al di fuori dalla Sede papale.

    Un papa che come Francesco nella scena del mantello sceglie al tempo stesso di decentrarsi e di rimanere centrato. Un decentramento che muove e spinge al prossimo, ma anche una centralità che gli permette di accogliere il ‘bagaglio’ dello spicchio di cielo che sovrasta la sua testa e donarlo, attraverso occhi e mani, all’altro.

    Un papa e due opere che ieri, oggi e domani, hanno parlato, parlano e parleranno di misericordia, proponendo un modus vivendi incentrato su questo dono. D’altronde misericordia è beatitudine, eldorado, salvezza.

    Papa Francesco apre la Porta Santa per il Giubileo della Misericordia

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    Raffaello e Perugino, lo Sposalizio della Vergine

    Quattro incontri su Raffaello & Co. Collaborazioni, sfide e adattamenti che saranno accomunati da un partecipante fisso: Raffaello, glielo dobbiamo. Il 2020 è l’anno Sanzio: cinquecento anni dalla sua morte. In questo articolo scopriremo i suoi esordi: Raffaello e Perugino attraverso lo Sposalizio della Vergine.

    Insieme a lui altri artisti o personaggi che lo incontrarono e non; che ci lavorarono insieme e non; che gli insegnarono o che furono suoi allievi. È in realtà questa l’occasione per parlare delle mille facce di Raffaello e del suo unico volto, quello immortale del divin pittore

    Il padre e i “Due giovani per d’etate e par d’amori

    Il seme della passione per l’arte e la letteratura fu probabilmente gettato dal padre Giovanni Santi, il quale era sì pittore, ma soprattutto letterato e, in una sua opera (scritta), possiamo cogliere un indizio – celato come un biglietto nascosto tra le lenzuola dei corredi delle nonne – che egli lasciò al figlio sugli esempi da seguire.

    «Due giovani par d’etate e par d’amori»

    Giovanni Santi ha il grande coraggio di proporre a suo figlio due modelli giovani, grandi nella pittura: Leonardo e Perugino. 

    Raffaello a bottega dal Perugino

    Oggi in particolare vedremo come Raffaello duettò con il secondo di questi: Pietro di Cristoforo Vannucci: il Perugino. Uno tra i più celebri maestri del Rinascimento, che aveva imparato l’arte a bottega dal Verocchio al fianco di Leonardo e Botticelli, che tramutò tutto il reale in spazio e luce e che dipinse nella cappella Sistina, lì dove l’ancora giovane Raffaello non fu chiamato per affrescare bensì per completare, anni dopo, la decorazione della cappella, centro della cristianità, con degli arazzi. 

    Le prime opere

    Già il Vasari sostiene, a ragione, che il primo dipingere di Raffaello fosse così aderente alla maniera peruginesca da non poterlo distinguere. Dobbiamo infatti immaginare, vista l’assenza di documenti, che fu proprio attorno al 1486 che il giovane Raffaello lavorò nella bottega del Perugino, dove perfezionò l’iniziazione urbinate. Qui la pratica disegnativa era considerata di fondamentale importanza. Solo infatti passando da Perugia possiamo giustificare la bellezza stilistica alla base della pala di Tolentino (1500); caratterizzata da una grande sicurezza e modernità d’impianto.

    Pala di San Nicola da Tolentino Raffaello
    Raffaello Sanzio, pala di San Nicola da Tolentino, 1500-1501. Museo di Capodimonte, Napoli.

    Il genio di Raffaello è anche dimostrato dalla rapidità con la quale egli uscì dalla condizione di praticante per diventare magister. Fu proprio con questo termine che venne identificato nel momento in cui, pur diciassettenne, ricevette l’incarico della realizzare della pala di San Nicola, al fianco di Evangelista di Pian di Meleto.

    Di poco successiva è la pala Colonna. Anche questa caratterizzata dalla maniera puntigliosa e gentile del Perugino e da un metodo di costruzione della composizione che avveniva pre gradi: dai primi disegni, all’impronta di cartoni finiti al dettaglio fino alla realizzazione dell’opera.

    Pala Colonna Raffaello
    Raffaello Sanzio, Pala Colonna, 1503-1505. Metropolitan Museum of Art New York

    Di lì probabilmente la strada di Raffaello si distanziò, anche fisicamente, da quella del Perugino, per poi di nuovo affrontarsi e confrontarsi pochi anni dopo – maestro e allievo – sul tema dello sposalizio della Vergine. 

    Raffaello e Perugino: Lo Sposalizio della Vergine

    Fu difatti nel 1504, in contemporanea alla realizzazione della tavola di medesimo soggetto di Perugino per il duomo della sua città, che Raffaello realizzò l’opera per la cappella in San Francesco di Città di Castello della famiglia Albizzini. Raffaello vide probabilmente l’inizio del lavoro del Perugino il quale aveva ripreso una composizione già utilizzata per il grande affresco della Consegna delle chiavi nella Cappella Sistina. Questo confronto presente su tutti i libri di storia dell’arte ci rivela gli aspetti che Raffaello scelse di approfondire nella sua crescita artistica: 

    • La prima cosa che salta all’occhio è la differente seppur simile impostazione spaziale. Permane la  prospettiva centrale ma Raffaello rimpiccolì il tempio facendolo entrare completamente nel quadro e alzando di poco il fuoco prospettico. In questo modo viene accentuata la profondità e l’intera composizione assume un maggior respiro. Lo stesso edificio viene tramutato da ottagono in poligono a sedici lati: una forma più sfuggente, meno incombente e più armonica. 
    • C’è inoltre nello Sposalizio del Sanzio un affinamento della gamma cromatica, che permette anch’esso un diverso apprezzamento degli spazi. Due esempi tra tanti, le squadrature della pavimentazione e su tutti, la diversa luce che colpisce le numerose facce dell’edificio.
    • Infine, trasferendoci ai personaggi, c’è maggior naturalezza nelle figure, che comunque paiono ancora legate ai modelli perugineschi, ma in questi modelli iniziano a star strette sperimentando diverse e varie pose, tralasciando simmetrie e lavorando piuttosto sulle opposizioni. 

    L’allievo che supera il maestro?

    È il sorpasso! si dice. Ma nella cultura, almeno quella di Raffaello, non è il sorpasso di colui che sceglie di lasciare indietro il concorrente. Raffaello il Perugino ce l’ha in testa, sulle spalle, ne prende in prestito il lavoro per migliorarne gli aspetti e trasmetterlo, accresciuto ai posteri.  

    «É per il fatto di aver attinto a così tanti modelli, che diventò lui stesso un modello per tutti i pittori successivi; sempre imitando e sempre restando originale» Joshua Reynolds 

    In altre parole Raffaello è sì grande perché sa dipingere, perchè impara fin da giovane l’atto pratico del disegno e della stesura del colore, ma è divenuto grande perché nella sua vita ha saputo osservare e cogliere le grandezze e le bellezze degli altri e, da questi altri, imparare.


    Tanto altro su Raffaello:


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    «Non vi è che la Maternità» l’opera di Gaetano Previati

    Oggi vi parlerò di maternità! Non in senso generale, tranquilli, ne saprei poco nulla! Vi parlerò dell’opera Maternità, di Gaetano Previati.

    Un fregio, una composizione stretta e lunga che ci conduce per mano fuori dal reale, poichè i fregi – benchè reali – erano destinati ai templi dedicati alle divinità. Le figure angeliche presenti nell’opera non conducono tuttavia in altre dimensioni, si prostrano invece ad una dimensione più che mai umana.

    Quello che vediamo è infatti un momento di quotidianità materna: l’allattamento. Un tema svolto in molte epoche artistiche e qui riproposto in una composizione non dissimile, della donna e del bambino. Previati inserisce trovate pittoriche sempre nuove nel loro guardare e reinterpretare modelli passati ma, con un qualcosa di diverso, che è segno distintivo dell’epoca e dell’artista: il sentimento. 

    C’è difatti in questa donna, e in questi angeli contemplanti il mistero tutto umano della maternità, il torpore sereno di un momento intimo e silente. Sentiamo il fruscio del vento che sussurra ai fiori, gigli e anemoni (presi dalla tradizione cristiana), che smuove le piume delle ali angeliche e volteggia tra le fronde dell’albero di melarancio. Quest’ultimo probabilmente, simbolo di fertilità.

    «Sono invischiato a rendere nella figura principale del quadro tutta l’intensità dell’amore materno spogliato dalle cianfruscole che hanno servito per mille dipinti – e in un renderlo partecipe del movimento delle altre figure del quadro perché ne risulti un tutto omogeneo che impedisca qualunque altra interpretazione dell’occhio dell’osservatore – ma che difficoltà Dio mio. 

    Ti sei tu ben formato l’idea di ottenere da una tela una voce che annienti il vostro temperamento, i vostri gusti, la vostra educazione e vi faccia prorompere dall’animo il grido che l’universo, la terra, la vita è nulla…. Non vi è che la maternità?!!! Anche sulla tela non vi devono essere né colori né forme – né cielo né prati – né figure di uomini né di femmine ma un fiat che dice adorate la madre…»

    La prima esposizione alla Triennale di Milano

    La difficoltà dell’artista nel comporre l’opera, di cui ci sono testimoni molti bozzetti e il carteggio con il fratello Giuseppe, fu in realtà specchio della critica che questo dipinto suscitò. Accettata per una manciata di voti alla Triennale milanese del 1891 (la triennale del debutto del divisionismo italiano) fu oggetto di giudizi contrastanti che tendevano a rifiutare ‘l’idealità’ di questo dipinto in favore di una pittura verista e indagatrice del reale. In quella medesima sala della triennale vi era un’altra opera di simile tema: Le due madri di Giovanni Segantini. una tela questa caratterizzata sì da una tecnica simile o quantomeno fondata sui medesimi principi di quella di Previati, ma che non fuggiva dal reale.

    Un pittore idealista

    Previati dal canto suo, fu sempre scansato, in quanto nel suo essere pittore vi era anche l’essere poeta.

    Scriveva in un articolo il suo gallerista Grubicy: «Per il Previati la tavolozza è soltanto sorgente di poesia: per lui ogni colore è sentimento, è idealizzazione di immagine, è via a entrare nell’impenetrabile. A questo alto concetto egli tutto sacrifica. Chi non accetta questi propositi del pittore, chi non si sente chiamato a entrare in queste sottilità poetiche non guardi il quadro del Previati. Ci perderà la testa; e pretenderà che la testa l’abbia perduta il pittore. Egli ha veduto per sentire non ha veduto per vedere».

    E continuava l’artista: «Ma se il mio cervello è tormentato da un’idea astratta, mistica, indefinita nelle sue parti, la cui bellezza estetica risiede appunto in questa sua indeterminazione simbolica; se nel mio cervello questa idea, col cercare di incorporarsi e di manifestarsi, respinge con insistenza ogni immagine positiva che richiami alla realtà, e non trova la sua espressione se non mantenendosi in una specie di visione complessiva fluttuante, sintetica, di forme e di colori, che lascino appena intravedere il simbolismo o ideismo musicale e quasi sopratterreno del mio pensiero;

    perché non mi sarà permesso di tentare la ricerca di un suono, d’una formula più tassativamente appropriata, invece di valermi delle solite parole, dei soliti strumenti, delle solite formule, che servirebbero bensì ad esprimermi secondo le consuetudini, ma non mi soddisfano, perché parmi che qualsiasi richiamo alla realtà debba contrastare e distruggere la natura dell’immagine complessiva che io accarezzo nella mia mente?

    Dunque cercherò qualche mezzo che mantenga al mio pensiero il suo carattere vago, oscillante di visione o di sogno indeterminato che sintetizzi forme, linee e colore, in modo da escludere qualsiasi divagazione sui dettagli, costringa la mente del riguardante a lasciarsi cullare dal simbolismo decorativo complessivo della mia idea».

    Il Previati divisionista

    Previati sperimenta dunque la tecnica nuova del divisionismo, che trae le sue fondamenta dalle teorie ottiche sulla rifrazione della luce e sulla scomposizione del colore di Chevreul e Rood. Il divisionismo diveniva la tecnica ideale per rompere con gli schemi e le convenzioni del realismo percepite da Previati come un limite. E tuttavia non fu solamente un mero mezzo, poichè alla sua base vi era un concetto nuovo di pittura: ‘la pittura di idea’.

    Si noti la differenza sostanziale, che non è solo tecnica, tra la prima redazione di maternità e l’opera compiuta. Nella prima c’è ancora un’adesione ai modi della pittura scapigliata di Tarquinio Cremona, dalla quale lo stesso Previati aveva attinto in gioventù. 

    La tela e la fortuna del pittore

    La grande tela subì nel corso del tempo lo stesso destino che in qualche modo toccò all’intera opera pittorica di Previati. Pochi anni dopo l’esposizione venne inviata a Parigi, per poi tornare ed essere lasciata in depositi pubblici, poiché l’artista non potè pagare il trasporto e il noleggio di un magazzino. Venduta all’asta ad insaputa di Previati fu riacquistata per sua volontà dal Gallerista Grubicy, suo sostenitore, per poi essere per lungo tempo dimenticata. Soltanto negli ultimi decenni la figura di questo pittore è stata progressivamente recuperata quale personalità chiave della sua epoca. E Maternità permane un’opera programmatica e apicale nella sua arte, la tela che gli permise di affermare:

    «Ho passato la linea che separa la tenebra dalla luce».

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    L’arte di Jeff Koons

    Noi come i suoi Baloons

    Ora chiudete gli occhi, rilassate i muscoli e, dimenticandovi di ciò che avete attorno, ascoltate il vostro respiro, inspirate…espirate, inspirate…espirate, inspirate…espirate…

    Ecco questo è già un primo passo per capire l’arte di uno tra i più celebri artisti contemporanei, erede di Andy Warhol e autore dei famosissimi Baloon dogs: Jeff Koons.

    Chi è Jeff Koons

    Jeff Koons nasce nel 1955 e compare sulla scena artistica alla fine degli anni Settanta. I suoi primi lavori hanno la forza di estrapolare ciò che più di ogni altra cosa stava modificando la vita pratica e quotidiana delle persone: un telefono, un tostapane, un frigo, e presentarli mutatis mutandis come opere d’arte, ponendoli davanti agli occhi del consumatore/spettatore. 

    Koons quindi inizia riflette e far riflettere sull’eterno binomio arte-mercato che in quegli anni è arte-capitalismo, arte-consumo, arte-pubblicità. La novità, il nuovo esposto e decontestualizzato, poiché tolto alla sua funzione. 

    L’artista elabora una sequenza di novità, new, oggetti, ready made presi dall’arte di Duchamp, mediati dal minimalismo di Flavin e esaltati dal pop di Warhol. 

    La cifra del 'respiro' nell'arte di Jeff Koons

    Di questa serie New, ci interessano i diversi e numerosi aspirapolveri, oggetti del desiderio di migliaia di donne americane, esposti in eterno in vetrine illuminate da neon nelle loro differenti livree di colore. Qui Koons letteralmente mette in vetrina degli oggetti del mercato spostando l’attenzione sulla funzione/vita di queste macchine. 

    Oggetti inattivi diventano arte e, come animali impagliati in un museo naturalistico, vengono privati del loro unico movimento, della loro sola funzione (vitale): del loro respiro. L’aspirapolvere che aspira ed espira diviene, posta in quel contesto, metafora dell’uomo, in quanto partecipa al processo che permette all’uomo la vita. 

    Contenere dell’aria è dunque il sottotesto, la costante di Koons e della sua esperienza artistica. C’è un simbolismo nei gonfiabili, che a che fare con il respiro, con qualcosa che non è visibile.

     

     

    Hoover -Shelton-Pol.tif

    I Baloon dogs di Jeff Koons «canti all'ottimismo»

    Koons dichiarò dopo la vendita di uno dei ballon dog per 58 milioni di dollari: «sono opere simboli di tutti noi, esalare e aspirare aria ci rende inflatables, movimento che è doppio, inalare è movimento della vita, esalare è movimento di morte, ma queste sculture sono canti all’ottimismo a cui macherà sempre il momento della cancellazione». I baloon dogs sono dunque una esaltazione dell’ottimismo di vivere poiché non esaleranno mai l’ultimo respiro. 

    Un’ottimismo caratterizzato dallo stato bambinesco della meraviglia, ma anche dell’incoscienza. Bambinesco è il soggetto, bambinesco è il colore. E Koons sa bene che queste strategie sono le stesse che il capitalismo insinua nella società per rendere anche il bambino un consumatore, un consumatore indiretto. 

    Il Kitsch e il contemporaneo

    Quella di Koons è una forma di rottura netta e sfacciata con l’arte intellettuale degli anni Sessanta e Settanta, è un’arte populista, che prende con se i linguaggi del kitsch.

    C’è infine un’ultimo elemento affatto trascurabile, e che approfondisce ulteriormente la riflessione: La superficie lucida che rimanda all’esterno, specchiando. Cosa nient’affatto nuova. La politura delle superfici è sempre stata utilizzata in arte, dalle pareti marmoree delle chiese che dovevano rispecchiare forme e luci, ai contrasti tra le superfici lisce e quelle lavorate a gradina dei marmi michelangioleschi. 

    E tuttavia, in questi ultimi e nella scultura in generale, la lucidità era utilizzata per mostrare ‘l’interno’, l’anatomicità, la perfezione in essere del soggetto scolpito. In Koons è invece rivelatrice dell’esterno poichè specchia noi stessi, mettendoci impudicamente di fronte ad una verità: questo sei tu! Questi siamo noi!

    Siamo noi nel senso letterale del termine e del soggetto dell’opera: corpi pieni d’aria, effimeri. Ma siamo noi anche nella forma dell’opera d’arte. Questa società, a volte, ci trasforma in grandi, colorati, infrangibili palloncini, compiaciuti e tronfi nelle nostre vanità.

    C’è poi la bellezza e il contrasto tutto contemporaneo, che su quella superficie ci si specchia l’ambiente, il mondo, e quindi il passaggio dall’io al noi diviene impercettibile nella sua vastità.

    Ecco allora, questo siamo noi, volente o nolente è uno specchio del nostro essere oggi. Questa è la forza dell’arte, realizzare opere, oggetti, suoni, immagini che parlino dell’oggi e che propongano riflessioni sullo stato di una società. 

    Un palloncino, noi e il capitalismo.

     Dove esattamente si formulano e si manifestano le novità del pensiero dell’arte della poesia, se tutta l’arte contemporanea è merda? dove il nostro tempo è se stesso?. 

    Jeff Koons a Firenze