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La Stanza di Eliodoro: gli affreschi di Raffaello per Giulio II
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L’ESATTEZZA – un memo di Calvino per il nostro tempo. Tra Leonardo e Leopardi
Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità. Cinque valori, cinque principi scelti da Italo Calvino per le sue Lezioni Americane e come veri e propri propositi per il nuovo millennio. A millennio già avviato vediamo se queste parole parlano ancora a noi, mostrandoci una via. Lo faremo camminando in bilico tra letteratura ed arte. Speriamo di non cadere!
Esattezza
Maat è divinità dell’antico Egizio, dea dell’ordine e dell’armonia, della verità e dell’equilibrio, della legge e della moralità. La sua piuma era posta sul piatto della bilancia in controparte al cuore del defunto per conoscerne il peso dell’anima. Maat era colei che ordinava le costellazioni, responsabile dunque di un ordine oltre che sociale, naturale, cosmico.
Già questa dea ci fa comprendere di come l’esattezza, sia un principio quanto mai centrale nella comprensione e nel racconto e quindi nella rappresentazione.
Ma cosa intendiamo per esattezza in genere?
- Un disegno, una struttura di una qualsiasi opera ben fatto e ben calcolato. Il doriforo di Policleto, un’opera di Piero della Francesca, un taglio di fontana.
- L’evocazione di immagini icastiche: nitide incisive, memorabili. Di quale esattezza è rivestito il bacio di Hayez, la libertà che guida il popolo di Delacroix, Guernica di Picasso.
- Un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione. Non solo una forma dell’opera, bensì un linguaggio nella realizzazione, una tecnica che sottende un pensiero. Forse in questo caso la cesta di frutta del Caravaggio, un’opera di Mondrian, la spasmodica e impossibile ricerca impressionista del ritrarre l’attimo.
Canestra di Frutta, Caravaggio Doriforo di Policleto La libertà che guida il popolo, Éugène Delacroix Il battesimo di Cristo, Piero della Francesca Ballo al Moulin de la Galette, Renoir Mondrian
Leonardo e Leopardi
C’è tuttavia l’idea, l’impressione che un qualcosa di esatto, non possa di per sé essere poetico, evocativo. Potremmo prendere come esempio letterario Leopardi che nei suoi scritti e in particolare nello Zibaldone parlava di un linguaggio tanto più poetico quanto più vago e indefinito.
Oppure sul fronte pittorico, Leonardo da Vinci, con la sua tecnica dello sfumato. Pensate solamente al volto della Gioconda, così spoglio di linee, di demarcazioni, o al paesaggio che fa da cornice alla donna.
La Gioconda, Leonardo da Vinci É bello notare, come ci ricorda Calvino, che il termine vago sia in italiano pure sinonimo di grazioso, attraente; e solitamente identificativo di una realtà mutevole.
Leopardi, per farci gustare la bellezza dell’indeterminato e del vago, esige quantomai un’attenzione precisa nella composizione di ciascuna immagine, nella definizione dei dettagli, nella scelta cauta degli oggetti, delle parole e dei loro suoni.
«Dolce e chiara è la notte e senza vento»
In un unico verso il poeta restituisce l’identità di un momento di vita, facendo percepire al lettore l’intimità, la mitezza e il chiarore della notte. Inoltre un’esattezza sia compositiva che lessicale e sensoriale: Leopardi incastona il soggetto fra i tre attributi, spezzando la ripetizione della ‘e’ e movimentando la sonorità del rigo.
Possiamo osservare le medesime caratteristiche e attenzioni in molti dei lavori artistici del maestro fiorentino.
Leonardo e Leopardi, la loro arte e poesia testimoniano allora a favore dell’esattezza. Citando Calvino possiamo affermare che il poeta e il pittore nel vago possono essere solo il poeta e il pittore della precisione.
È certo che poi l’arte non si fermi a ciò, ma che questo costituisca un punto di inizio o comunque di passaggio. L’anelito dell’indeterminato, che pervade la ricerca di questi due uomini, si tramuta nell’osservazione del molteplice, del formicolante e del pulviscolare.
Esattezza e indeterminato
Ecco quindi che esattezza esiste nell’indeterminatezza. Nell’entropia si possono annidare zone di ordine, «porzioni di esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva». Ecco la letteratura e l’arte in genere, costituiscono queste eccezioni nelle quali l’esistente si cristallizza in forma e un senso si figura. L’arte in altre parole è la grande nemica del caso pur essendo del caso figlia.
All’esattezza, che sia immaginaria, dipinta o scritta, mancherà tuttavia sempre un qualcosa, come molto manca a questo nostro discorso. Proprio questo senso di manchevolezza e di continuo labor limae emerge incessantemente negli autografi di molte opere scritte sotto forma di cancellature e correzioni. Ed è altrettanto nell’arte: pentimenti, ritocchi, aggiunte. Il linguaggio, in qualsivoglia sua forma, ha sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell’esperibile.
Il mostro marino di Leonardo
Un esempio meraviglioso del Leonardo scienziato e della sua ‘battaglia con la lingua’ lo troviamo nel recto del foglio 715 del Codice Atlantico. Qui egli immaginò di osservare il movimento di un mostro marino del quale ebbe occasione di veder il fossile e utilizza dapprima queste parole:
O quante volte fusti tu veduto in fra l’onde del gonfiato e grande oceano, col setoluto e nero dosso, a guisa di montagna e con grave e superbo andamento.
Ci fu tuttavia qualcosa che non gli piacque, il termine ‘andamento’ forse, troppo generico ce che male si addiceva ad un cetaceo. Scrisse allora di nuovo l’immagine:
E spesse volte eri veduto in fra l’onde del gonfiato e grande oceano, e col superbo e grave moto gir volteggiando in fra le marine acque. E con setoluto e nero dosso, a guisa di montagna, quelle vincere e sopraffare.
Ma ‘volteggiare’ sminuiva la possenza di quell’animale. Compose allora l’ultima e definita descrizione, più accurata ed esatta:
O quante volte fusti tu veduto in fra l’onde del gonfiato e grande oceano, a guisa di montagna quelle vincere e sopraffare, e col setoluto e nero dosso solcare le marine acque, e con superbo e grave andamento!
Ecco come Leonardo inseguiva la realtà e immaginava. Egli è ben noto che preferiva il disegno alla parola (O scrittore con quali letter escriverai tu con tal perfezione la intera figurazione qual fa qui il disegno?), Leopardi invece prediligeva la parola al disegno.
Si scelga l’arte che si vuole, purché non smettiamo anche noi di inseguire la realtà, giorno dopo giorno, non dimenticando il principio dell’esattezza.
Foglio 715 del Codex Atlanticus Alla prossima lezione americana!
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Raffaello a Roma: Giulio II e le stanze vaticane.
I passi del divin pittore ci portano dunque a Roma dopo Urbino, Perugia e Firenze. Chiamato nel 1508 da papa Giulio II, Raffaello ha l’enorme occasione di mettere piede nella città pontificia madre dell’antichità, palcoscenico e banco di prova dei maggiori artisti. Qui, per lui, si aprirono nuove stanze, o meglio egli stesso, attraverso la sua arte, gli diede vita…
Il riferimento alle nuove stanze è certamente quello che pensavate. Giulio II aveva chiesto ai più celebri artisti dell’epoca di affrescare le pareti del nuovo piano dei suoi appartamenti, avendo egli voluto trasferirsi al piano superiore e lasciare le stanze dell’odiato predecessore Alessandro VI. Il papa, grande amante e intenditore d’arte, aveva già chiamato a sé il Sodoma, Bramantino, Baldassarre Peruzzi, Luca Signorelli, il Perugino, Lorenzo Lotto per l’importante lavoro.
papa Alessandro VI e papa Giulio II Tra questi aveva incaricato Raffaello di realizzare un affresco su una delle quattro pareti della stanza che egli usava come biblioteca. Questa, prese poi il nome di Stanza della Segnatura in quanto sotto il pontificato di Paolo III vi si riuniva l’omonimo tribunale.
La stanza della segnatura
Proprio la funzione di questo luogo ispirò il programma iconografico che doveva fondarsi sulle quattro facoltà universitarie medievali: la filosofia, la giurisprudenza, la poesia e la teologia. Quest’ultimo fu il soggetto, il macrotema dell’affresco affidato a Raffaello. Un’opera con la quale egli si guadagnò sì tanta fiducia da parte del pontefice, da far sì che tutti i lavori degli altri artisti fossero poi sostituiti da quelli del Sanzio. Quindi che l’intera stanza, ad eccezione del soffitto che pure modificò, fosse da lui affrescata.
La disputa sul Sacramento La disputa sul Sacramento
La Chiesa terrena
Partiamo allora dalla disputa sul sacramento. È questa una composizione che diparte dal basso, all’altezza dell’occhio dello spettatore e che, attraverso il pavimento e le linee prospettiche su questo disegnate, corre e sale fino all’altare. Su questo è esposto il sacramento, l’eucaristia, il centro e il fulcro dell’intero affresco. E difatti costituisce l’oggetto di quanto avviene dintorno: una disputa concitata, emozionante, umana. Tra i personaggi si scorgono i quattro padri latini della dottrina, accompagnati da teologi e membri della Chiesa e di ordini religiosi con Dante e papa Sisto IV.
La Chiesa ultraterrena
Alla concitazione del piano inferiore si oppone, e non poteva essere altrimenti, la gloria, la beatitudine della Chiesa ultraterrena. Anche in questo caso tutto si origina dal centro con la rappresentazione del gruppo della Deesis (Cristo, la Vergine e Giovanni il battista). Quest’ultima costituisce un’iconografia così cara alla Chiesa di Roma che non poteva di certo mancare in questa ‘abside immaginaria’. Si percepisce inoltre una verticalità (anch’essa propria delle composizioni absidali) che pone sul medesimo asse il Sacramento, la colomba dello Spirito Santo, il Cristo e Dio Padre (La Santissima Trinità). Attorno, ancora una volta a questo fulcro, c’è la comunità dei santi, di apostoli e patriarchi, assisi su un banco di nuvole.
Il mistero per il quale Cristo si fa eucaristia attraverso lo Spirito Santo è reso pittoricamente mediante l’immagine del cerchio, il quale da sfondo radiante della persona di Gesù, attraverso l’aurea luminosa della colomba si fa carne nell’ostia. Gli stessi cerchi posti orizzontalmente e dilatati nello spazio vanno a creare l’intera composizione conferendo un ordine compositivo alla Chiesa terrena e ultraterrena. Due realtà che, sebbene parallele, si compenetrano.
La scuola di Atene
La scuola di Atene Sulla parete di fronte Raffaello realizzò l’affresco della scuola di Atene. Al cielo e all’orizzonte si sostituisce parzialmente una struttura basilicale di ‘tempio della filosofia’. All’interno di questo sono collocate in due nicchie opposte le statue di Apollo, divinità ideale della musica e della poesia, e di Minerva, dea conosciuta per la sua saggezza.
Dominano la scena, stavolta tutta terrena, i due filosofi Aristotele e Platone con una folta schiera di allievi e maestri: il patrimonio ideale e spirituale della filosofia. Tra le molte interpretazioni sembra cogliere a fondo il significato del luogo e del periodo in cui questo affresco fu ideato quella che vede illustrate nei gruppi di filosofi le sette arti liberali: membra del corpo della filosofia. Partendo dal basso possiamo individuare le quattro figure che incarnano le discipline scientifiche formanti il quadrivio. Pitagora padre dell’aritmetica che assieme alla musica contribuisce all’armonia del mondo, Archimede raffigura la geometria e Zoroastro l’astronomia. Nella parte più alta Raffaello rappresenta le arti del trivio. La grammatica, illustrata nell’allievo e nel maestro sulla sinistra, la Retorica incarnata dal Socrate orante e, infine, Platone e Aristotele rappresentanti, con le loro celebri dita rivolte a direzioni opposte, la dialettica.
Il monte Parnaso Il monte Parnaso
Siamo alla terza parete, affrescata tra il 1510 e il 1511. Saliamo sul monte Parnaso e sulla cima Apollo, circondato dalle muse e dai grandi poeti del passato (Omero, Virgilio, Dante e Petrarca, Boccaccio e Saffo) suona la sua lira. La bellezza e l’armonia delle figure sembra essere sinestetica e riproporre la musica suonata dal dio. Un’opera questa che per esser compresa a fondo va in qualche modo ‘velata’. Velata era infatti dalla luce naturale che entrava dalla finestra e che lasciava intravedere di là da quella il colle Vaticano. Qui i suoi giardini di paradiso terrestre riportavano la mente dell’osservatore all’origine di quel sito, anche denominato mons Apollinis, luogo d’adorazione del dio Apollo. Mito, religione storia e realtà dialogano allora in questo posto con l’arte.
Le Virtù Le Virtù
Sull’ultima parete di questa stanza la giustizia sta. O meglio la giustizia sorveglia dall’alto del suo clipeo. Nella lunetta infatti sono raffigurate le tre virtù cardinali fortezza, prudenza e temperanza. Nei loro corpi, nella mascolinità e plasticità di questi, possiamo scorgere l’influenza delle immagini michelangiolesche che Raffaello forse vide nell’estate del 1511 sulle volte della Cappella Sistina.
Tornando all’affresco, sulla sinistra vediamo raffigurato Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano. Sulla destra invece, papa Gregorio IX (in vero Giulio II) che riceve le decretali da San Raimondo di Penafort.
Raffaello Sanzio ed Eugenio Montale Nuove stanze
Come si accennava all’inizio di questo articolo Raffaello aprì nuove stanze. E non lo fece unicamente in senso figurato con rappresentazioni in grado di sfondare prospetticamente pareti regalando spazi illusori di grande qualità. Giulio II fu un pontefice di grande carisma che dovette affrontare le ingerenze spagnole francesi e tedesche nonché quelle della Repubblica veneziana nella geopolitica di allora. Lo stato pontificio andava difeso nella sua entità morale ma anche e soprattutto nell’integrità territoriale. E tuttavia questo pontefice, questo uomo era così amante del bello che riuscì in una tale situazione di crisi a commissionare, a pensare e desiderare, questi capolavori.
Venendo al Novecento Eugenio Montale, alle soglie della seconda guerra mondiale, con presentimenti funerei che pervadono le composizioni poetiche di quegli anni, trova, nella poesia, l’occasione di creare nuove stanze (un componimento inserito nella raccolta La bufera ed altro). Stanze intese forse da Montale come poetiche costruzioni di versi, mentre per Giulio II e quindi per Raffaello dobbiamo pensarli come luoghi concreti da rinnovare o da rifondare nella bellezza.
Ci sono tre punti comuni a queste storie: una situazione di crisi e quella è parte anche della realtà odierna; le potenzialità rivoluzionarie del bello dell’arte e della poesia e queste ci sono, sempre! Infine: un’anima che si metta alla prova…che aspetti?
Nuove stanze
Poi che gli ultimi fili di tabacco
al tuo gesto si spengono nel piatto
di cristallo, al soffitto lenta sale
la spirale del fumo
che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
guardano stupefatti; e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tua dita.
La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s’apre la finestra
non vista e il fumo s’agita. Là in fondo,
altro stormo si muove: una tregenda
d’uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.
Il mio dubbio d’un tempo era se forse
tu stessa ignori il giuoco che si svolge
sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
follìa di morte non si placa a poco
prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo
ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
cortine che per te fomenta il dio
del caso, quando assiste.
Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
tocco la Martinella ed impaura
le sagome d’avorio in una luce
spettrale di nevaio. Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi d’acciaio.
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Claude Monet e la serie delle Cattedrali di Rouen
«Chiedo scusa ai professionisti, ma non posso resistere al desiderio di fare, per un giorno, il critico d’arte. La colpa è di Claude Monet» (Georges Clemenceau)
E no caro mio Clemenceau, io la colpa non la darei solamente a Monet, poichè sono molti gli artisti che fanno parlare di loro, o meglio, che fanno sì che si possa e si debba in qualsiasi momento poter discutere di bellezza. Tuttavia almeno per oggi seguiamo i tuoi consigli e ci occupiamo di Monet, di Claude Monet e delle sue cattedrali di Rouen.
Sono un maleducato, non vi ho presentato Clemenceau, monsieur Georges Clemenceau, un giornalista e il più celebre politico francese di inizio Novecento. Egli fu anche uno tra i più importanti estimatori del fenomeno impressionista. Ma veniamo all’opera, la serie di tele raffiguranti la cattedrale gotica di Rouen.
Le cattedrali di Rouen
Monet raffigurò ben 48 volte questa facciata con il portale Ovest e la tour Saint-Romain. Non lo fece scegliendo una visione complessiva e frontale, bensì secondo un’occhio ‘fotografico’, inquadrando parte del soggetto, in scorcio e lasciando al cielo un angolo di tela ritagliato tra i pinnacoli. Alla fantasia dell’osservatore spetta l’arduo compito di completare quelle visioni. C’è certamente in questa scelta l’essere impressionista di Monet, o meglio, il percepire l’influenza della fotografia nella visione e nella composizione delle immagini.
La rappresentazione della luce
Tuttavia rimane al fondo anche un qualcosa di più intimo e pratico: per l’artista che Monet fu le opere nascono in qualità di studi. C’è quindi un mettersi in discussione, una ricerca spasmodica della verità, non della verosimiglianza. In altre parole su queste tele vediamo raffigurata sì la vista da una delle finestre del suo atelier, ma quello che colpisce, fino a far parlare di rivoluzione, è il livello di astrazione alla quale Monet giunge nel voler rappresentare la luce. La cattedrale oltre ad essere soggetto diviene allora un mezzo per la rappresentazione.
Monet aveva scelto di portare avanti questi studi nei mesi di febbraio marzo e aprile di due anni consecutivi, il 1892 e il 1893, affacciandosi su un angolo di città conosciuto a menadito, una finestra sul mondo o meglio sulla luce.
Marcel Proust e noi…
E a noi, che viviamo più di un secolo dopo, nel mondo che fa che da sfondo a schermi, affacciandoci a finestre sì, ma di luce piatta e artificiale; le parole di Marcel Proust ricordano di essere immersi nella quotidianità, ma anche in qualcosa di gran lunga più importante di essa: la natura, la vita.
«Queste ore […] dove si scopre la vita di quella cosa fatta dagli uomini, ma che la natura si è ripresa immergendola in sé, una cattedrale, la cui vita, come quella della terra, nel suo doppio rivolgimento si sviluppa nei secoli e d’altra parte si rinnova e finisce ogni giorno».
Una serie di venti cattedrali fu esposta nel 1895 nella Galleria di Durand-Ruel. E proprio in quell’occasione Clemenceau si rattristava di fronte all’assenza di un compratore che volesse acquistare non un dipinto, bensì l’intera opera. Poiché di un’opera unica per lui si trattava.
«Allora, con un ampio colpo d’occhio che abbraccia il tutto, avrete, in una folgorazione, la percezione della cosa fuori del comune, del prodigio. E quelle cattedrali grigie, che sono di porpora o di azzurro violentato d’oro; e quelle cattedrali iridescenti, che sembrano viste attraverso un prisma girevole; e quelle cattedrali azzurre, che sono rosa, vi daranno tutt’a un tratto la visione duratura non più di venti, ma di cento, di mille, di un miliardo di aspetti diversi della cattedrale di sempre nel ciclo immenso dei soli. Sarebbe la vita stessa, così come può essercene comunicata la sensazione nella sua realtà più intensa. Ultima perfezione d’arte fin qui mai raggiunta» (Georges Clemanceau)
Ora dopo ora, pennellata dopo pennellata, tela dopo tela, ricordiamoci di rendere la nostra un capolavoro.