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    Raffaello a Roma: Giulio II e le stanze vaticane.

    I passi del divin pittore ci portano dunque a Roma dopo Urbino, Perugia e Firenze. Chiamato nel 1508 da papa Giulio II, Raffaello ha l’enorme occasione di mettere piede nella città pontificia madre dell’antichità, palcoscenico e banco di prova dei maggiori artisti. Qui, per lui, si aprirono nuove stanze, o meglio egli stesso, attraverso la sua arte, gli diede vita…

    Il riferimento alle nuove stanze è certamente quello che pensavate. Giulio II aveva chiesto ai più celebri artisti dell’epoca di affrescare le pareti del nuovo piano dei suoi appartamenti, avendo egli voluto trasferirsi al piano superiore e lasciare le stanze dell’odiato predecessore Alessandro VI. Il papa, grande amante e intenditore d’arte, aveva già chiamato a sé il Sodoma, Bramantino, Baldassarre Peruzzi, Luca Signorelli, il Perugino, Lorenzo Lotto per l’importante lavoro. 

    Tra questi aveva incaricato Raffaello di realizzare un affresco su una delle quattro pareti della stanza che egli usava come biblioteca. Questa, prese poi il nome di Stanza della Segnatura in quanto sotto il pontificato di Paolo III vi si riuniva l’omonimo tribunale.

    La stanza della segnatura

    Proprio la funzione di questo luogo ispirò il programma iconografico che doveva fondarsi sulle quattro facoltà universitarie medievali: la filosofia, la giurisprudenza, la poesia e la teologia. Quest’ultimo fu il soggetto, il macrotema dell’affresco affidato a Raffaello. Un’opera con la quale egli si guadagnò sì tanta fiducia da parte del pontefice, da far sì che tutti i lavori degli altri artisti fossero poi sostituiti da quelli del Sanzio. Quindi che l’intera stanza, ad eccezione del soffitto che pure modificò, fosse da lui affrescata. 

    La disputa sul Sacramento

    La disputa sul Sacramento

    La Chiesa terrena

    Partiamo allora dalla disputa sul sacramento. È questa una composizione che diparte dal basso, all’altezza dell’occhio dello spettatore e che, attraverso il pavimento e le linee prospettiche su questo disegnate, corre e sale fino all’altare. Su questo è esposto il sacramento, l’eucaristia, il centro e il fulcro dell’intero affresco. E difatti costituisce l’oggetto di quanto avviene dintorno: una disputa concitata, emozionante, umana. Tra i personaggi si scorgono i quattro padri latini della dottrina, accompagnati da teologi e membri della Chiesa e di ordini religiosi con Dante e papa Sisto IV.

    La Chiesa ultraterrena

    Alla concitazione del piano inferiore si oppone, e non poteva essere altrimenti, la gloria, la beatitudine della Chiesa ultraterrena. Anche in questo caso tutto si origina dal centro con la rappresentazione del gruppo della Deesis (Cristo, la Vergine e Giovanni il battista). Quest’ultima costituisce un’iconografia così cara alla Chiesa di Roma che non poteva di certo mancare in questa ‘abside immaginaria’. Si percepisce inoltre una verticalità (anch’essa propria delle composizioni absidali) che pone sul medesimo asse il Sacramento, la colomba dello Spirito Santo, il Cristo e Dio Padre (La Santissima Trinità). Attorno, ancora una volta a questo fulcro, c’è la comunità dei santi, di apostoli e patriarchi, assisi su un banco di nuvole.

    Il mistero per il quale Cristo si fa eucaristia attraverso lo Spirito Santo è reso pittoricamente mediante l’immagine del cerchio, il quale da sfondo radiante della persona di Gesù, attraverso l’aurea luminosa della colomba si fa carne nell’ostia. Gli stessi cerchi posti orizzontalmente e dilatati nello spazio vanno a creare l’intera composizione conferendo un ordine compositivo alla Chiesa terrena e ultraterrena. Due realtà che, sebbene parallele, si compenetrano.

    La scuola di Atene

    La scuola di Atene

    Sulla parete di fronte Raffaello realizzò l’affresco della scuola di Atene. Al cielo e all’orizzonte si sostituisce parzialmente una struttura basilicale di ‘tempio della filosofia’. All’interno di questo sono collocate in due nicchie opposte le statue di Apollo, divinità ideale della musica e della poesia, e di Minerva, dea conosciuta per la sua saggezza. 

    Dominano la scena, stavolta tutta terrena, i due filosofi Aristotele e Platone con una folta schiera di allievi e maestri: il patrimonio ideale e spirituale della filosofia. Tra le molte interpretazioni sembra cogliere a fondo il significato del luogo e del periodo in cui questo affresco fu ideato quella che vede illustrate nei gruppi di filosofi le sette arti liberali: membra del corpo della filosofia. Partendo dal basso possiamo individuare le quattro figure che incarnano le discipline scientifiche formanti il quadrivio. Pitagora padre dell’aritmetica che assieme alla musica contribuisce all’armonia del mondo, Archimede raffigura la geometria e Zoroastro l’astronomia. Nella parte più alta Raffaello rappresenta le arti del trivio. La grammatica, illustrata nell’allievo e nel maestro sulla sinistra, la Retorica incarnata dal Socrate orante e, infine, Platone e Aristotele rappresentanti, con le loro celebri dita rivolte a direzioni opposte, la dialettica. 

    Il monte Parnaso

    Il monte Parnaso

    Siamo alla terza parete, affrescata tra il 1510 e il 1511. Saliamo sul monte Parnaso e sulla cima Apollo, circondato dalle muse e dai grandi poeti del passato (Omero, Virgilio, Dante e Petrarca, Boccaccio e Saffo) suona la sua lira. La bellezza e l’armonia delle figure sembra essere sinestetica e riproporre la musica suonata dal dio. Un’opera questa che per esser compresa a fondo va in qualche modo ‘velata’. Velata era infatti dalla luce naturale che entrava dalla finestra e che lasciava intravedere di là da quella il colle Vaticano. Qui i suoi giardini di paradiso terrestre riportavano la mente dell’osservatore all’origine di quel sito, anche denominato mons Apollinis, luogo d’adorazione del dio Apollo. Mito, religione storia e realtà dialogano allora in questo posto con l’arte. 

    Le Virtù

    Le Virtù

    Sull’ultima parete di questa stanza la giustizia sta. O meglio la giustizia sorveglia dall’alto del suo clipeo. Nella lunetta infatti sono raffigurate le tre virtù cardinali fortezza, prudenza e temperanza. Nei loro corpi, nella mascolinità e plasticità di questi, possiamo scorgere l’influenza delle immagini michelangiolesche che Raffaello forse vide nell’estate del 1511 sulle volte della Cappella Sistina.

    Tornando all’affresco, sulla sinistra vediamo raffigurato Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano. Sulla destra invece, papa Gregorio IX (in vero Giulio II) che riceve le decretali da San Raimondo di Penafort. 

    Nuove stanze

    Come si accennava all’inizio di questo articolo Raffaello aprì nuove stanze. E non lo fece unicamente in senso figurato con rappresentazioni in grado di sfondare prospetticamente pareti regalando spazi illusori di grande qualità. Giulio II fu un pontefice di grande carisma che dovette affrontare le ingerenze spagnole francesi e tedesche nonché quelle della Repubblica veneziana nella geopolitica di allora. Lo stato pontificio andava difeso nella sua entità morale ma anche e soprattutto nell’integrità territoriale. E tuttavia questo pontefice, questo uomo era così amante del bello che riuscì in una tale situazione di crisi a commissionare, a pensare e desiderare, questi capolavori.

    Venendo al Novecento Eugenio Montale, alle soglie della seconda guerra mondiale, con presentimenti funerei che pervadono le composizioni poetiche di quegli anni, trova, nella poesia, l’occasione di creare nuove stanze (un componimento inserito nella raccolta La bufera ed altro). Stanze intese forse da Montale come poetiche costruzioni di versi, mentre per Giulio II e quindi per Raffaello dobbiamo pensarli come luoghi concreti da rinnovare o da rifondare nella bellezza.

    Ci sono tre punti comuni a queste storie: una situazione di crisi e quella è parte anche della realtà odierna; le potenzialità rivoluzionarie del bello dell’arte e della poesia e queste ci sono, sempre! Infine: un’anima che si metta alla prova…che aspetti?

    Nuove stanze

    Poi che gli ultimi fili di tabacco
    al tuo gesto si spengono nel piatto
    di cristallo, al soffitto lenta sale
    la spirale del fumo
    che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
    guardano stupefatti; e nuovi anelli
    la seguono, più mobili di quelli
    delle tua dita.

    La morgana che in cielo liberava
    torri e ponti è sparita
    al primo soffio; s’apre la finestra
    non vista e il fumo s’agita. Là in fondo,
    altro stormo si muove: una tregenda
    d’uomini che non sa questo tuo incenso,
    nella scacchiera di cui puoi tu sola
    comporre il senso.

    Il mio dubbio d’un tempo era se forse
    tu stessa ignori il giuoco che si svolge
    sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
    follìa di morte non si placa a poco
    prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo
    ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
    cortine che per te fomenta il dio
    del caso, quando assiste.

    Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
    tocco la Martinella ed impaura
    le sagome d’avorio in una luce
    spettrale di nevaio. Ma resiste
    e vince il premio della solitaria
    veglia chi può con te allo specchio ustorio
    che accieca le pedine opporre i tuoi
    occhi d’acciaio.


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    Sulla distruzione delle statue

    L’iconoclastia in tempi moderni, il fantasma del fascismo e Me di Giovanni Morbin.

    Oggi parleremo del nulla.

    Avrete in questi mesi visto alcune di queste immagini. Scopriremo, anche attraverso di loro, la potenza espressiva del vuoto, nell’arte e quindi… nella vita.

    La distruzione delle statue

    Oggi ci accorgiamo che qualcosa non ci piace e la distruggiamo. Un po’ come l’Isis, un po’ come i talebani, un po’ come tanti altri. Questo è il principio che sta al fondo di un qualsiasi conflitto, non solo armato, un’idea tutt’altro che democratica che è il primo passo verso la non equità e la non uguaglianza. 

    Oggi ci accorgiamo di monumenti controversi che affollano le nostre piazze: in Italia la statua del giornalista Montanelli, a Boston e Richmond quella di Cristoforo Colombo, del presidente Jefferson e, in Inghilterra, quella dei trafficanti di schiavi Edward Colson e Robert Milligan. E non finisce la lunga lista delle statue che si sono prefissi di abbattere seguendo una vera e propria hill list. La distruzione delle statue: l’iconoclastia contemporanea che cancella l’arte, la storia e la memoria.

    E, bene che si riapra il dibattito su queste ed altre figure: ma deturpare, distruggere, cancellare: non è dibattito.

    La forza espressiva del vuoto

    Anche perchè, come nei secoli passati, la damnatio memoriae e la conseguente distruzione, cancellazione, lasciano un vuoto: un vuoto in termini visivi, tangibili e un vuoto documentario. 

    Il primo lo vediamo in molte testimonianze storico-artistiche e, siamo inconsapevolmente attratti da lui. Di fronte a una qualsiasi immagine la nostra mente è attratta dal ‘mancante’ e quel mancante diviene il focus primario della visione e quindi dello studio. il pezzo di puzzle che manca, magari oscuro, ma assente, e quindi non si può avere un giudizio su questo.

    Un vuoto che diviene allora documentario e storico. E la storia si fonda sui documenti, sulle testimonianze anche artistiche. Non è accettabile questa riduzione del dibattito delicatissimo sulle tracce del passato all’abbattimento di statue e monumenti. Poiché è proprio quando si fa difficile e sfocato il discorso storico che emergono le ignoranze, i negazionismi, i ‘terrapiattismi’ e i neofascismi.

    E l’Italia fascista?

    Se non la distruzione, quale sarebbe la soluzione allora? Cosa fare ad esempio con la Roma e l’Italia costellata di architetture e simboli fascisti? 

    Cancellare no! Dannare la memoria non può essere la soluzione del nostro secolo. Ci diciamo che la memoria è preziosa, è vero, purché essa diventi motivo e mezzo di dialogo. 

    Proprio in merito alle tracce del fascismo nella nostra cultura e vita quotidiana, Gianni Rodari consigliò, quando ancora il dibatitto sui monumenti e sulla Roma fascista infiammava: 

    «Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte».

    Ex casa del fascio di Valdagno, ora Ufficio delle imposte dirette.

    L’opera Me di Giovanni Morbin

    Un’aggiunta semplice, diretta, potente è stata realizzata nel 2014 dall’artista contemporaneo Giovanni Morbin sulla facciata dell’ufficio delle imposte dirette ex casa del fascio di Valdagno. Gli abitanti della cittadina hanno visto comparire al fianco della lettera M in carattere ferreo e rigido del Mussolini che fu, una e in marmo rosa, che ripropone il ‘problema’ fascismo e lo propone allo spettatore che è. Il significato di quel luogo per la comunità cittadina, dato ormai per scontato, con l’aggiunta semplice di una lettera si incunea nella quotidianità proponendo un’interrogativo personale e uno spunto per un’assunzione di responsabilità e di memoria. L’artista ha sottolineato la sua volontà di introdurre “gesti nello scorrere del giorno” perchè mettano lo spettatore vis à vis con il suo ego fascista, assopito, ma che sta emergendo di nuovo.

    Un’istallazione, una minima modifica dello spazio pubblico, che ci interroga sulla socialità contemporanea e sul significato dell’architettura e della scultura, che tra le mani di Morbin divengono uno strumento maieutico di svelamento nel presente di zone oscure che sono parte della nostra pische e, in termini sociali, di fermenti invisibili e subdoli di fascismo patinato, educato, di fascismo perbenista o borghese e apparentemente anche benevolo.

    Opere che – dice l’artista – hanno il dovere di mettere in discussione le abitudini. 

    Oggi ci accorgiamo di quelle statue nelle piazze. Perchè proprio lì? Perchè la piazza dettava un tempo la via. E allora iniziamo accorgerci di quanto questo nostro tempo ci abbia tolto dalle piazze, portandoci nelle piazze mercato e distraendoci, togliendoci obiettivi e ideali. Vogliamo ritornare nelle piazze e sostituire le immagini che ledono la sensibilità di alcuni o di molti? Bene, se ne parli, si prenda una decisione, ma non si distrugga. Piuttosto si portino quelle statue in Museo, oltre che essere opere d’arte, sono storia e patrimonio comune. 

    Come ci dice Morbin, quella storia, qualunque storia, riguarda anche Me.

    Forse oggi più che mai è indispensabile prendersi ancora più cura dei ‘monumenti vivi e viventi’: degli anziani, degli adulti, dei genitori, degli insegnanti, degli educatori e cioè di tutte le persone che aiutano a crescere; in quanto l’unica cosa da abbattere oggi è l’ignoranza, non il passato. Poichè come ci dice Morbin: quella storia, qualunque storia, riguarda anche Me.