• Dante Gabriele Rossetti, jane Burden, Pia dei Tolomei.
    arte,  attualità,  Dante,  Donne d'arte,  preraffaelliti

    Il canto V del Purgatorio: la storia di Pia dei Tolomei

    Il canto V del Purgatorio: luce e dolcezza

    Il canto V del Purgatorio dantesco è un teatro di emozioni e un perfetto e sintetico esempio del travagliato cammino che porta le anime in questo regno e, attraverso di esso, al Paradiso.

    «Io era già da quell’ombre partito,

    e seguitava l’orme del mio duca,

    quando di retro a me, drizzando ’l dito,

    una gridò: “Ve’ che non par che luca

    lo raggio da sinistra a quel di sotto,

    e come vivo par che si conduca!“.

    Li occhi rivolsi al suon di questo motto,

    e vidile guardar per maraviglia

    pur me, pur me, e ’l lume ch’era rotto.»

    Ecco un dato essenziale di questo nuovo regno: la luce.

    Una luce atmosferica, protagonista di albe e tramonti.

    Una luce che ricorda a Dante e a molte delle anime cosa significhi vivere sulla terra. Quale importanza abbia avere un corpo, ed esserci qui ed ora, artefici e liberi nel presente (vedremo questo che senso avrà). Le anime del purgatorio si trovano a vivere quasi una seconda vita terrestre, perchè temporanea, e questo gli è permesso perchè in vita loro hanno scelto, fatto, creduto.

    Una luce che, meravigliosamente, dopo l’oscurità infernale, torna ad esistere e a dar vita alla bellezza e all’arte. Dante in questo passo della commedia dipinge, e se ne accorsero fino dall’antichità. 

    In questa miniatura vediamo il corpo del poeta fare da schermo alla luce solare. l’ombra e quindi il corpo è segno distintivo dell’uomo pellegrino, dell’uomo che sale, non già dannato, non ancora beato. La luce è qui per Dante il medium per dipingere coi versi quest’immagine nella mente del lettore.

    E’ costante dell’intero purgatorio questa ombra di Dante, come costante è l’appellarsi delle anime a lui.

    Una luce infine che è simbolo di salvazione, un riflesso di rugiada della beatitudine del paradiso, un antipasto della, prima o poi, ventura dolcezza

    Sarà quest’ultima a caratterizzare molte delle figure umane del purgatorio e a costituire forse la tematica più affascinante di questo V canto del purgatorio. 

    Il canto V del Purgatorio: i morti per forza

    Semplicemente le ultime tre terzine di questo V canto del Purgatorio, sarebbero sufficienti per fare esperienza di dolcezza. Possiamo permetterci però un cammino più simile a quello dantesco e il canto quindi lo attraverseremo tutto, seppure celermente, per meglio assaporarne il finale. 

    Ci troveremo ad attraversare folle di anime, con Virgilio che spinge Dante a non fermarsi e a colloquiare e camminare insieme. Dante sembra trovarsi in difficoltà, ma prosegue nel cammino.

    Canto V purgatorio
    Gustave Dorè, Canto V del Purgatorio

    Ora immaginate di essere in un museo. La prima cosa che Dante ci consegna di questo canto è una visione generale:

    «O anima che vai per esser lieta 

    […]

    deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?

    Noi fummo tutti già per forza morti, 

    e peccatori infino a l’ultima ora

    quivi lume del ciel ne fece accorti,

    sì che, pentendo e perdonando, fora 

    di vita uscimmo a Dio pacificati

    che del disio di sé veder n’accora».

    Pentendo, perdonando, pacificati: tre termini che riassumono il senso della vita di coloro che sono morti per morte violenta e, in generale, delle anime del Purgatorio. Tre termini con i quali raccontano brachilogicamente la loro intera vita, la loro morte e e la loro condizione presente.

    La morte di Jacopo del Cassero: lo strazio

    Dopo aver descritto la condizione condivisa di questa folla, un personaggio prende la parola e narra la sua storia: Jacopo del Cassero. Prega Dante di ricordarlo nella sua Fano, affinchè i suoi cari possano, pregando, permettergli l’espiazione dei peccati «purgar le gravi offese». Fu ucciso costui da sicari inviati dal tiranno d’Este nei pressi di Padova, questa la narrazione:

    Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira, 

    quando fu’ sovragiunto ad Oriaco, 

    ancor sarei di là dove si spira.

    Corsi al palude, e le cannucce e ‘l braco 

    m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io 

    de le mie vene farsi in terra laco». 

    Che quadro che ci regala Dante, il ritratto d’un uomo còlto nella prigionia del corpo, avviluppato nel momento della morte, costretto al termine della sua vita dalla volontà altrui.


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    La storia di Bonconte: il pentimento

    GUstave Dorè, La morte di Buonconte, canto V del Purgatorio

    A questa storia, quasi stessimo osservando un dittico, Dante collega la seconda:

    Poi disse un altro: «Deh, se quel disio 

    si compia che ti tragge a l’alto monte, 

    con buona pietate aiuta il mio!

    Anche questo secondo personaggio ancor prima di presentarsi chiede a Dante preghiere. La stessa richiesta sarà nella bocca del terzo personaggio.

    Il futuro (la preoccupazione per la preghiera) e il passato (la narrazione della loro uccisione) sono ricordo e speranza e sono il fil rouge che unisce le tre storie.

    Ma Dante è narratore e pittore arguto. Non ripete mai se stesso. E in ciascuno di questi quadri noi leggiamo tre diversi momenti della stessa morte.

    Con Jacopo del Cassero abbiamo percepito lo strazio. Con Bonconte comprendiamo il perchè queste anime sono al purgatorio nonostante i loro peccati: il pentimento.

    Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; 

    […]

    Quivi perdei la vista e la parola;

    nel nome di Maria fini’, e quivi 

    caddi, e rimase la mia carne sola.

    Io dirò vero e tu ‘l ridì tra’ vivi: 

    l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno 

    gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?

    Tu te ne porti di costui l’etterno 

    per una lagrimetta che ‘l mi toglie; 

    ma io farò de l’altro altro governo!”.

    Eccola, eccola la ragione vera, il secondo momento: il pentimento. La lagrimetta è il vero centro morale e fantastico del canto. Una lagrimetta che per il paradosso dell’amore cristiano vale la salvezza eterna. 

    L'immagine di Pia dei Tolomei: la dolcezza

    Dante Gabriele Rossetti, jane Burden, Pia dei Tolomei.
    Dante Gabriele Rossetti, jane Burden, Pia dei Tolomei.

    Ma siamo alla fine, Al terzo e ultimo quadro che compone questo trittico. Siamo ad una delle più celebri ed enigmatiche figure di donna su cui la critica combatte e s’arrovella.

    «Deh, quando tu sarai tornato al mondo, 

    e riposato de la lunga via», 

    seguitò ‘l terzo spirito al secondo,

    «ricorditi di me, che son la Pia: 

    Siena mi fé, disfecemi Maremma: 

    salsi colui che ‘nnanellata pria 

    disposando m’avea con la sua gemma». 

    «Deh, quando tu sarai tornato al mondo, e riposato de la lunga via»: E’ una delle entrate più incantevoli di tutta la letteratura. Con quale delicatezza e attenzione entra nella vicenda dantesca questo personaggio. Certo richiede quanto altri prima di lei avevano richiesto, ma lo fa mostrando premura per la stanchezza del pellegrino Dante.

    Questa donna passata alla storia come Pia de’ Tolomei è ad oggi ancora un mistero. Ciò che rimane di questa storia è la violenza che subì da parte del marito, il quale sospettando un tradimento l’avrebbe uccisa. 

    Quante Pia de’ Tolomei potremmo narrare oggi. 

    Rimane poi, al fondo di questa narrazione, la meraviglia di una vita splendidamente racchiusa in un verso: «Siena mi fé disfecemi Maremma» al cui centro permane il continuo fare e disfare proprio della vita terrena.

    Siamo dunque giunti al terzo momento di coloro che abbiamo fin qui definito morti per forza: la dolcezza.

    Dolcezza di donna che ha premura nei confronti di Dante. Dolcezza nel porgersi e nel chiedere il ricordo, con gentilezza. Dolcezza che è anticamera di pacebeatitudine.

    Pia dei Tolomei
    Pio Fedi, Pia dei Tolomei e Nello della PIetra

    Ancora Dante...

    Il canto XIII dell'Inferno: la vicenda di Pier delle Vigne

    Il canto XI del Paradiso: Francesco e madonna Povertà

  • arte,  arte contemporanea,  arte oggi,  attualità,  Novecento,  rinascimento

    Il padiglione Italia per Expo 2020 Dubai: quale bellezza?

    BEAUTY CONNECTS PEOPLE

    Il padiglione Italia per Expo 2020 Dubai: un crocevia di esperienze, relazioni, discipline e competenze che, tutte insieme tendono alla bellezza. Ma, quale bellezza?

    Quale bellezza?

    Quale bellezza unisce le persone?

    È su questa domanda che ci giochiamo non solo e non tanto il successo ad Expo 2020 Dubai, ma il futuro di un intero paese (e se vogliamo dell’umanità) che, se non si volge con sguardo rinnovato allo studio e al sacrificio dai quali germogliano scienza e cultura, è destinato a galleggiare sulla superficie di un bello circoscritto ai quadrati di instagram.

    La scelta della parola Bellezza affonda le sue radici nei significati originari del termine ‘bellus’ (forma antica di diminutivo di ‘bonus’). Bello è bene e verità secondo l’accezione platonica poi ripresa dal cristianesimo e da esso posta a fondamento di gran parte del patrimonio storico artistico di cui ci sentiamo ‘figli’. 

    Una bellezza ‘trinitaria’ dunque, che vive e si alimenta della complessità, dell’incontro, di continue e costanti connessioni, di discussioni e passi verso l’oltre. Una bellezza che ha a cuore la profondità e necessita di tempo, di sacrificio e di relazione. 

    Alberto Burri, cretto nero

    Questo è ciò a cui tendono, per vie e ambiti differenti, le opere, le creazioni, le riproduzioni e le idee che costellano il percorso del padiglione Italia a Expo 2020 Dubai.

    Dal sipario di corde realizzate con plastica riciclata, alla quasi perfezione dell’orologio atomico; dall’inedito sguardo del David di Michelangelo riprodotto magistralmente in scala 1:1, al cretto e ai cellotex di Alberto Burri

    Infine, quindi, una bellezza consapevole, che renda vibratile il cuore come le corde che attorniano il padiglione mosse dal caldo vento di Dubai. Perchè bello è ciò che dèsta l’animo.

    Una bellezza che con questa consapevolezza e queste certe radici, guardi al gigante futuro con lo sguardo giovane, sfidante e deciso del David.

    E mi pare che, con la recente notizia di voler destinare lo spazio del padiglione alla funzione di centro di restauro altamente specializzato per le opere dei paesi in guerra, stiamo già risollevando lo sguardo!


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  • arte,  arte contemporanea,  Dante,  medioevo

    Il canto XI del Paradiso: Francesco e madonna Povertà

    Il pellegrino Dante nei suoi canti lascia messaggi, denunce, storie, consigli. Anche in questo XI canto del Paradiso lo fa. Lo fa perchè questo suo viaggio, questi versi, gli hanno cambiato la vita. Perchè Dante scrive? 

    Nel primo canto della Divina Commedia il sommo poeta ci anticipa in realtà il motivo ultimo per il quale egli compì questo viaggio in versi:

    «ma per trattar del ben ch’io vi trovai

    dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte»

    Il ben: l’oggetto della narrazione, il desiderio ultimo del cammino.

    L'incipit dell'XI canto del Paradiso

    Ma veniamo al nostro XI canto del Paradiso al quale Dante dà avvio con queste parole:

    O insensata cura de’ mortali, 

    quanto son difettivi silogismi 

    quei che ti fanno in basso batter l’ali! 

    Chi dietro a iura, e chi ad amforismi 

    sen giva, e chi seguendo sacerdozio, 

    e chi regnar per forza o per sofismi,

    e chi rubare, e chi civil negozio, 

    chi nel diletto de la carne involto 

    s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

    quando, da tutte queste cose sciolto, 

    con Beatrice m’era suso in cielo 

    cotanto gloriosamente accolto.

    (XI canto del Paradiso, vv. 1-12)

    Cosa cercano i mortali? Cosa cerchiamo noi qui su questa terra? per cosa battono le nostre ali? a cosa punta il nostro volo di così alto?

    Ora, San Tommaso d’Aquino, che sarà il personaggio narrante di questo canto, ci introdurrà in realtà al vero protagonista. Certo è che, con questo incipit, Dante dovrà proporci una via e presentarci un qualcuno che di volo e di vere ali si intenda. Ma chi è costui? Chi sarà questo maestro del volo?

    I due principi a guida della Chiesa

    La provedenza, che governa il mondo 

    […]

    due principi ordinò in suo favore, 

    che quinci e quindi le fosser per guida.

    L’un fu tutto serafico in ardore

    l’altro per sapienza in terra fue 

    di cherubica luce uno splendore.      

    Due principi dunque, la divina Provvidenza avrebbe inviato nel mondo a guida della Chiesa: Francesco «serafico in ardore» e Domenico che «per sapienza in terra fue». La figura del santo di Assisi verrà ampiamente illustrata in questo canto XI del Paradiso, mentre quella di San Domenico lo sarà nel canto successivo. Questa composizione, da Dante attentamente studiata, ha spinto la critica dantesca a parlare di ‘dittico’: due uomini e due santi posti l’uno di fronte all’altro in una continuità inestricabile, poichè centrale fu il ruolo che ebbero nel rinnovamento della Chiesa. Qui, tratteremo unicamente della prima tavola di questo aureo dittico. 


    Assisi come Oriente

    Dante non ha ancora svelato il nome di questo principe e prima di dare forma al personaggio sceglie di dipingere il paesaggio della tavola:

    Intra Tupino e l’acqua che discende 

    del colle eletto dal beato Ubaldo, 

    fertile costa d’alto monte pende, 

    onde Perugia sente freddo e caldo 

    da Porta Sole; e di rietro le piange 

    per grave giogo Nocera con Gualdo.

    Di questa costa, là dov’ella frange 

    più sua rattezza, nacque al mondo un sole, 

    come fa questo tal volta di Gange.

    Però chi d’esso loco fa parole, 

    non dica Ascesi, ché direbbe corto, 

    ma Oriente, se proprio dir vuole.  

    (Canto XI del Paradiso, vv. 43-54)

    Un personaggio d’Assisi. Anzi, un personaggio da Oriente, poichè da questa cittadina umbra sorse un sole. Si noti qui l’accostamento meraviglioso in termini lessicali tra Ascesi e Oriente: un qualcosa che sale, che tende continuamente e instancabilmente all’alto. Una tendenza che ricalca il desiderio dantesco in questo viaggio ultraterreno, è l’itinerario che porta alla beatitudine, è il cammino che il poeta ci propone.

    La donna amata che pianse «con Cristo in su la croce».

    Di seguito, il sommo poeta che non ha ancora chiamato per nome questo sole, inizia la narrazione di una love story millenaria. Dante comprende che è l’amore ad illuminare le storie degli uomini e sceglie di narrarci la storia di questo principe, di questo sole assisano, attraverso l’amore.

    ché per tal donna, giovinetto, in guerra 

    del padre corse, a cui, come a la morte, 

    la porta del piacer nessun diserra;

    […]

    poscia di dì in dì l’amò più forte.

    Questa, privata del primo marito, 

    millecent’anni e più dispetta e scura 

    fino a costui si stette sanza invito;

    né valse esser costante né feroce, 

    sì che, dove Maria rimase giuso,

    ella con Cristo pianse in su la croce. 

    (Canto XI del Paradiso, vv. 58 sgg.)

    Una love story che trova la sua vocazione ultima in uno sposalizio e come in tutti i matrimoni il focus visivo è la sposa. Chi è questa sposa? Chi questa donna che quando Maria rimase giù, a guardare e piangere il figlio crocifisso, ella con Cristo pianse in sulla croce. Dov’è questa donna? Chi mai l’ha vista questa femmina al fianco di Cristo? Vedete quale genio è Dante a farci credere che tutte le crocifissioni fino ad allora dipinte potessero nascondere in realtà una donna. Chi mai ha visto una crocifissione con una sposa sulla croce insieme a Cristo?

    Cimabue, Crocifissione del transetto sinistro della Basilica di San Francesco
    Giotto, Crocifissione

    Francesco e madonna Povertà

    Dante sta parlando in modo misterioso, questa narrazione è volutamente poco chiara, nebulosa. 

    Ma perch’io non proceda troppo chiuso, 

    Francesco e Povertà per questi amanti 

    prendi oramai nel mio parlar diffuso.      

    Allora Dante ci illumina, facendoci tornare indietro a ciò che finora ha detto. Ora? la vedete la sposa in quelle crofissioni? 

    Essa, Povertà è l’anello di congiunzione. Lui, giovinetto innamorato e finalmente chiamato per nome è Francesco

    Questo sposalizio tra Francesco e madonna Povertà è fecondo, questo amore è ricco:

    tanto che ‘l venerabile Bernardo 

    si scalzò prima, e dietro a tanta pace 

    corse e, correndo, li parve esser tardo. 

    Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! 

    Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro 

    dietro a lo sposo, sì la sposa piace. 


    Attraverso la figura di Francesco Povertà diviene ricchezza, ben ferace, desiderio di sequela. In un turbinio di versi incalzanti i primi seguaci entrano nella vita del santo compiendo una precisa scelta di vita: ‘scalzarsi’.  

    E tornano allora in mente le domande di inizio canto: dietro a cosa andiamo noi? Per cosa battiamo le nostre ali quaggiù?


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    Le immagini di Francesco da Subiaco a Giotto

    Affresco con Francesco d'Assisi presso il Sacro Speco di Subiaco.

    Conosciamo molte immagini di Francesco. Probabilmente l’affresco conservato nell’Eremo di San Benedetto presso Subiaco è il più antico ritratto che ci restituisce una sua immagine verosimile. In questo ritratto Francesco  non è ancora santo, non è ancora stimmatizzato. Questi due elementi iconografici permettono di ipotizzare una datazione anteriore al 1226.

    Più celebre è l’immagine che Cimabue ci lasciò di Francesco nella Chiesa inferiore di San Francesco in Assisi. In questo volto, in questa figura esile sembra trasparire la descrizione che Tommaso da Celano riporta nelle sue biografie: 

    «Servus Dei Franciscus, persona modicus, mente humilis, professione minor»

    Sarà poi Giotto, nel ciclo delle storie di San Francesco nella Basilica omonima ad Assisi, a incorniciare l’immagine del Francesco santo colui che, secondo a Cristo (alter Christus), è vocato al rinnovamento e alla riedificazione della Chiesa con lo sguardo volto all’insù. 

    Cimabue, San Francesco d'Assisi, chiesa inferiore di San Francesco d'Assisi
    Giotto, spoliazione di San Francesco, Basilica di San Francesco in Assisi

    Dalla spoliazione alle ali di Francesco

    Dante in questa biografia che è l’XI canto del Paradiso cela messaggi. Sceglie l’immagine di Francesco che ritiene essenziale, che reputa probabilmente più viva e vera per l’esperienza cristiana propria a lui e agli uomini del Trecento. L’immagine fondante di tutti gli altri ‘Francesco’ rappresentati: la Povertà.

    Camminando per la navata della chiesa inferiore di Assisi, si è attorniati da due storie che corrono parallele: quella di Cristo sulla destra e quella di Francesco sulla sinistra. Due storie di spoliazione, due storie di nudità. Francesco che si spoglia delle vesti, Cristo che viene spogliato, Francesco che riceve le stimmate e la sua morte, Cristo crocefisso e morto.

    Francesco è alter Cristus, e lo è in questo canto e in questa navata poiché sposo di madonna Povertà fino alla sua morte terrena:

    «a’ frati suoi, sì com’a giuste rede, 

    raccomandò la donna sua più cara, 

    e comandò che l’amassero a fede;

    e del suo grembo l’anima preclara 

    mover si volle, tornando al suo regno, 

    e al suo corpo non volle altra bara». 

    (Canto XI del Paradiso, vv. 106-117)

    Nudo sulla paglia Cristo nascente, nudo sulla piazza Francesco che sceglie di seguire il Padre suo che è nei cieli nascendo a vita nuova, nudo sulla croce Cristo, nudo sulla terra nuda Francesco stimmatizzato.

     

    Franz von Bayros, illustrazione del Canto XI del paradiso, Vienna 1921.

    Ecco in quest’ultima parola ciò che trasforma la povertà in ricchezza, ecco il ben che Dante trova in questo canto: le stimmate.  Le stimmate, agiscono e vivono sulla carne viva, sulla nudità. Sono il simbolo e il sigillo dell’aderenza a Cristo. Sono, in questo meraviglioso particolare dell’opera di Franz von Bayros le ali di Francesco. Ali serafiche, ali che non si sciolgono, ali che vivono a contatto con quel sole, ali che salgono come Francesco, come Dante, come tutti noi destinati alla pace e alla beatitudine.

    Non è caso che al fondo della navata di spoliazione prima citata si arrivi all’altare, proprio sopra la tomba del Francesco terreno e sotto quattro magnifiche vele. Alzando gli occhi tra la luce dell’oro appare lo sposalizio di Francesco con madonna Povertà che, insieme alle due virtù castità e obbedienza, apre alla raffigurazione della gloria di Francesco, splendente e luminoso nel suo essere creatura di Dio.

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  • arte,  attualità

    Il padiglione Vaticano per EXPO Dubai 2020

    «Deepening the connection»

    La presenza della Santa Sede a Expo Dubai 2020

    Il padiglione vaticano per Expo Dubai 2020 è finalmente pronto ad accogliere fedeli visitatori. Fin dalla prima Esposizione Universale la Santa Sede ha partecipato attivamente a questi momenti internazionali mettendo insieme energie, cammini ed esperienze da portare e condividere con e nel mondo. 

    Expo Dubai 2020 rappresenta la prima Esposizione Universale nei paesi arabi e di religione mussulmana e in quanto tale un importante luogo di incontro e, oggi più che mai, un’occasione di dialogo per conoscersi e concepire insieme idee per un nuovo futuro. Questo è infatti il main topic e quindi il title di questo evento: 

    “Connecting Minds, Creating the Future”.

    È dunque attraverso il concepirsi parte di un’unica umanità e abitanti di un comune pianeta che possiamo catalizzare energie e idee, orientandoci insieme a soluzioni e progetti che possano migliorare noi, il mondo e che sappiano far fronte alle sfide della realtà globale.

    In questo contesto si inseriscono le riflessioni e i desideri di Papa Francesco che hanno tracciato la via per l’ideazione e la realizzazione del ‘prezioso’, seppur piccolo, padiglione Vaticano per Expo Dubai. Sono queste infatti le parole del pontefice che accolgono il visitatore: 

    «It is my desire that, in this our time, 

    by aknowledging the dignity of each human person, 

    we can contribute to the rebirth of a universal aspiration to fraternity. 

    Fraternity between all men and women»

    L'arte, la scienza e la fede insegnano il dialogo.

    Il padiglione Vaticano per Expo 2020 nel nome di Francesco

    Un padiglione piccolo eppure ricco di contenuti e di bellezza. Un percorso incardinato sul significato profondo dell’incontro, che ne costituisce il fil rouge, la modalità e l’obiettivo.


    Il viaggio di San Francesco in Oriente e il rinomato incontro con il Sultano presso Damietta nel 1219 sono le tracce sulle quali questo cammino si innesta. Questo importante momento della storia è presente nel padiglione grazie ad una riproduzione dell’affresco giottesco della Basilica di San Francesco d’Assisi. Lo spettatore si trova qui ad entrare nella nicchia divenendo spettatore e attore, parte di  un dialogo secolare, crocevia di sguardi e azioni. 

    Su questo si innesta il più recente incontro di Abu Dhabi (2019, ben ottocento anni dopo) tra Papa Francesco e il Grande Imam Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib. In quella sede fu firmato un importante documento e la presenza oggi, della Santa Sede, presso Expo Dubai 2020, si inserisce su questo solco, volendo dare continuità alla Dichiarazione sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune.

    I manoscritti vaticani per il padiglione Vaticano a Expo Dubai 2020

    Il padiglione Vaticano per Expo Dubai, ideato e progettato da Mons. Trafny e dall’Architetto Giuseppe Di Nicola (DiNicolaDesign), ospita tre importanti manoscritti provenienti dalla Biblioteca Apostolica Vaticana. 

    Primo tra questi in esposizione e significativamente attiguo alla riproduzione digitale della Torre dei Venti, sono l’Osservazioni sulla riforma gregoriana del calendario dell’astronomo portoghese Tomás de Or.

    Secondo e centrale nell’intero percorso espositivo per pregio e importanza, un palinsesto di inestimabile valore, risalente agli inizi del IX secolo e probabilmente unica testimonianza ad oggi esistente di quel centro culturale e scientifico che fu la House of Wisdom di Baghdad.

    Ultimo è il Liber Abbaci di Leonardo Pisano (meglio conosciuto come Fibonacci) sull’introduzione dei numeri arabi in Occidente (1202-1228).

    Tre testi, esposti a Expo Dubai 2020, che sono testimoni di un costate interscambio valoriale tra Oriente ed Occidente, di crescita e sviluppo reciproco, di conoscenze trasmesse e bellezze condivise.

    La Creazione di Adamo di Michelangelo: figli e 'Fratelli tutti'

    Centro dell’intera concezione e pupilla luminosa del padiglione è la riproduzione della Creazione di Adamo del soffitto michelangiolesco della Cappella Sistina. La realizazzione ‘a mano’ dell’opera e la sua collocazione in un alveo luminoso aprono ad una percezione sensoriale ed emozionale. Lo spirito divino dà vita e valore all’intera umanità e gli uomini si scoprono figli di un unico dio e fratelli.

    Ecco dunque che, accompagnati dalla giovani legati alla spiritualità francescana in quello che intende essere “un incontro tra estetica, scienza e fede sotto l’insegna della fraternità e del dialogo interculturale e interreligioso”, i visitatori del padiglione si troveranno a fare esperienza di quella fratellanza che Papa Francesco ha posto a fondamento della sua ultima Enciclica Fratelli Tutti, ispirata dall’esperienza di San Francesco e in Assisi firmata lo scorso 4 ottobre 2020. 

    Dialogo e incontro sono dunque fil rouge, modalità e obiettivo ultimo di questa presenza, avvalorati e sostenuti da pezzi di storia, scienza, fede e bellezza: vie e cammini per approfondire la conoscenza e la relazione. 

    La Creazione di Adamo presso il padiglione Vaticano per Expo Dubai 2020

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    Il Canto XIII dell’Inferno: Pier delle Vigne e i suicidi

    Attraverso questo canto XIII dell’Inferno della Divina Commedia, il poeta Dante ci conduce alla scoperta delle profondità umane. Un canto che, tra pietà, commozione e rispetto, affronta uno gli argomenti più dibattuti in seno alla Chiesa di allora e di oggi e al tempo stesso più personali e dolorosi: il suicidio. I suicidi saranno dunque i personaggi che incontreremo e, tra loro, conosceremo la tragedia di Pier delle Vigne.

    L'inizio del canto XIII dell'Inferno: il bosco

    «Non era ancor di là Nesso arrivato,

    quando noi ci mettemmo per un bosco

    che da neun sentiero era segnato.»

    (Inferno, Canto XIII, vv. 1-3)

    Immaginiamoci in compagnia di Dante il quale, terzina dopo terzina e canto dopo canto, continua nella discesa agli inferi. Giunti nel secondo girone del settimo cerchio ci ritroviamo al dentro di un bosco senza alcun sentiero tracciato. In una sola terzina il poeta detta linee e colori di quanto si presenta alla sua visione:  

    Non fronda verde, ma di color fosco;

    non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;

    non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 4-6)

    Colori scuri e tetri, linee curve e spezzate. Il bosco, l’unico dell’inferno, costituisce il paesaggio di questo canto.

    Dunque, quella che ci viene descritta è una selva verosimile che al poeta ricorda, anche se più fitta e impenetrabile, quelle della Maremma. Eppure è una selva a modo suo disumana, priva dei tratti di bellezza e fascinazione che caratterizzano i boschi terreni.

    Gustave Doré, canto XIII i suicidi e le arpie

    La pena dei suicidi: alberi in preda alle arpie

    Tuttavia il bosco non è solo ambientazione e paesaggio di questo canto XIII dell’Inferno. Gli alberi che lo compongono celano in realtà un’invenzione quasi cinematografica.

    «Io sentia d’ogne parte trarre guai

    e non vedea persona che ’l facesse;

    per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

    Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse

    che tante voci uscisser, tra quei bronchi,

    da gente che per noi si nascondesse».

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 22-27)

    Qui Dante ode delle voci e in queste terzine parla e ragiona da uomo: chiunque infatti, al sentire in un bosco delle urla, crederebbe qualcuno nascosto dietro agli alberi. Sono invece le anime dannate dei suicidi racchiuse nei tronchi. 

    Ecco allora che il bosco è sì il paesaggio di questi cerchio, ma ne è anche il personaggio, gli abitanti.

    «Però disse ’l maestro: “Se tu tronchi

    qualche fraschetta d’una d’este piante,

    li pensier c’ hai si faran tutti monchi”.

    Allor porsi la mano un poco avante

    e colsi un ramicel da un gran pruno;

    e ’l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?. […]

    Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”.»

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 28-33)

    Dante e Pier delle Vigne canto XIII Inferno

    Ebbene questo è il momento in cui si oltrepassa il confine del reale e le parole iniziano a descrivere facendosi immagine. 

    Siamo nel secondo girone del settimo cerchio, ove sono puniti coloro che hanno usato violenza contro se stessi: i suicidi e gli scialacquatori.

    Dannati e pena rientrano allora, alla luce di quanto detto, nel mondo regolatore del contrappasso: coloro che hanno rinnegato e rifiutato il loro corpo, sono costretti nell’inferno sotto le sembianze di sterpi continuamente spogliati e rotti dalle arpie.

    Quindi, Dante riprende l’invenzione della pianta che prende la parola dal libro III dell’Eneide, poema scritto dal Virgilio da lui scelto come guida. Eppure l’essenza di questi rovi e di questi arbusti e alberi umanizzati è caricata da Dante di un significato nuovo, pregno della morale cristiana.

    La storia di Pier delle Vigne: il canto XIII della Divina Commedia

    «Come d’un stizzo verde ch’arso sia

    da l’un de’ capi, che da l’altro geme

    e cigola per vento che va via,

    sì de la scheggia rotta usciva insieme

    parole e sangue; ond’io lasciai la cima

    cadere, e stetti come l’uom che teme.»

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 40-45)

     

    La narrazione che riguarda la vicenda di Pier delle Vigne è una delle più figurative e concrete di tutta la Divina Commedia. In questi versi Dante restituisce un’immagine precisa e quanto mai surreale della sua visione: un ramo spezzato dal quale escono insieme sangue e parole con la stessa leggerezza con la quale esce il fumo da una estremità d’un tronco ardente.

    Ma chi è allora il tronco al quale Dante si è apprestato e al quale ha staccato un ramo? 

     

    «Io son colui che tenni ambo le chiavi

    del cor di Federigo, e che le volsi,

    serrando e diserrando, sì soavi,

    che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;

    fede portai al glorioso offizio, 

    tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi.»

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 58-63)

     

    Pier delle Vigne fu personaggio chiave del regno di Federico II. Nato a Capua, studiò a Bologna e fu accolto intorno al 1220 alla corte dell’imperatore come notaio della cancelleria imperiale. Per più di venti anni svolse numerose cariche di prestigio presso la corte, amministrative e diplomatiche fino a divenire primo segretario e portavoce di Federico II.

    L'ingiustizia «ingiusto fece me contra me giusto»

    Nel 1249 fu però privato di ogni carica, arrestato e incarcerato. Fu accecato con un ferro rovente e in questa condizione di prigionia decise di darsi la morte

    La meretrice, l’invidia, che è morte comune e vizio diffuso nelle corti 

    «infiammò contra me li animi tutti;

    e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,

    che lieti onor tornaro in tristi lutti.

    L’animo mio, per disdegnoso gusto, 

    credendo col morir fuggir disdegno,

    ingiusto fece me contra me giusto»

    (Canto XIII dell’Inferno, vv. 67-72)

    Quest’ultimo verso rivela la prospettiva di colui che compie l’atto e tutto ruota attorno alla giustizia e alla dimensione di solitudine amplificata dalla ripetizione del «me». Solitudine, isolamento che si fanno carne nell’opera realizzata da Valentina Vannicola per questo canto XIII.

    E se qualcuno di voi due tornerà nel mondo – continua il personaggio – «conforti la memoria mia». La mente del dannato è concentrata sulla dimensione terrestre, sulla memoria del suo nome.

    Valentina Vannicola, I suicidi

    Il suicidio secondo Dante

    Il suicida, in Dante e in questo canto XIII dell’Inferno, perde l’occasione di un riscatto, lascia da parte una realtà che si trova poi a rimpiangere, non solo e non tanto per la condizione infernale che si troverà a vivere, quanto per non aver possibilità di riscattare le motivazioni per le quali ha compiuto quell’atto di superbia

    Un supremo atto di ingiuria verso se stesso e verso il supremo amore divino.  

    Infine, la critica ritiene questo uno dei canti perfetti della Commedia. Dietro questa perfezione non possiamo che ravvisare un sentimento profondamente umano che Dante, pellegrino e scrivente, prova nei confronti di questi dannati: «tanta pietà m’accora»

    Ciò che fu Federico II per Pier delle Vigne, fu Firenze per Dante.

    In questo canto traspare una riflessione acuta e accurata dell’uomo Dante sul suicidio e sulle ragioni, una riflessione anche autobiografica.

    Ma veniamo a noi. Le due illustrazioni che hanno accompagnato questo percorso sono incisioni di Gustave Dorè, nelle quali sembra emergere una corrispondenza tra i tracciati delle linee e il lessico usato da Dante nello svolgersi di questa vicenda. Un lessico e una sintassi cupi, duri, distorti, spezzati, rotti

    Aggettivi che potremmo traslare alla realtà dei suicidi e dei violenti contro se stessi. Non solo a quelli immaginati e descritti da Dante, bensì a quelli dei nostri giorni. Non solo dopo morti, come in queste emerge in queste due tele di Manet e Frida Kahlo, ma spezzati da vivi.

    Manet, Il suicida
    Frida Kahlo, Il suicidio di Dorothy Hale

    Spezzati da vivi

    Dunque spezzati da vivi. Come se nel suicidio ci fosse la volontà di uniformare il corpo all’animo già spezzato in vita. 

    Violenza che si fa contro se stessi è spesso violenza già subita da altri. Al centro del canto Dante pone questa frattura tra uomo e uomo, tra uomo e comunità, questa solitudine che è spesso la causa dello spezzarsi di «quella resistenza interna dell’animo umano che non riconosce altra misura fuori di se stesso». 

    Con profondità il Sommo poeta consegna alla storia le anime dei suicidi, lasciando trasparire quella pietà che sarà poi da Fabrizio De andré trasformata in un inno, in una Preghiera in Gennaio.

    «Lascia che sia fiorito
    Signore, il suo sentiero
    Quando a te la sua anima
    E al mondo la sua pelle
    Dovrà riconsegnare
    Quando verrà al tuo cielo
    Là dove in pieno giorno
    Risplendono le stelle

    Quando attraverserà
    L’ultimo vecchio ponte
    Ai suicidi dirà
    Baciandoli alla fronte
    Venite in Paradiso
    Là dove vado anch’io
    Perché non c’è l’inferno
    Nel mondo del buon Dio»

    Scopri la Divina Commedia in arte

  • arte,  arte contemporanea,  arte oggi,  attualità,  eventi,  rinascimento

    Dante d’arte: Inferni, Purgatori e Paradisi in scena alla Proloco di Petrignano

    Domenica 29 agosto presso il parco della Proloco di Petrignano d’Assisi è iniziato il cammino Dante d’arte che condurrà alla scoperta delle tre Cantiche dantesche. Nelle tre serate, a cura del team di esperti d’arte di Parte tutto da qui e promosse dalla Proloco, saranno raccontati alcuni personaggi, paesaggi, terzine dantesche attraverso gli occhi degli artisti, che a Dante e alla sua Commedia si ispirarono.

    Dante con i suoi versi sarà il Virgilio, la guida di questi incontri:

    «Or va, ch’un sol volere è d’ambedue: tu duca, tu segnore e tu maestro»

    Non unica guida, poichè ci si addentrerà nella Commedia attraverso le immagini. Opere, miniature, storie che dal Trecento in poi hanno incrociato, tentato di spiegare, approfondito, i versi delle tre Cantiche.

    Poesia e Arte saranno le scarpe che verranno calzate per compiere alcuni passi nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso danteschi e in concerto nei più diversi inferni, purgatori e paradisi umani. 

    Dante d'arte

    Gli Inferni di Dante, siamo giunti a ‘riveder le stelle’!

    Gli Inferni di Paolo e Francesca, di Farinata degli Uberti e di Pier delle Vigne hanno guidato il percorso attraverso gli inferi, accompagnati dalle illustrazioni senza tempo di Gustave Dorè, dalla plasticità della scultura di Rodin, dalle opere di Gaetano Previati e molti altri. Un cammino ascoso che grazie alla grande partecipazione di pubblico e alle guide Giulia Bertuccioli, Valentina Fabbri, Nicolò Cerasa, Michelangelo Matilli e Nadia Cesaretti ha condotto i presenti ‘a riveder le stelle’.

    Domenica 5 settembre la prossima tappa: i Purgatori

    Domenica 5 settembre ulteriori passi saranno compiuti. Stesso luogo ma diversa ambientazione: il Purgatorio dantesco. Nuovi personaggi, nuove immagini, colori finalmente e armonie differenti caratterizzeranno questa seconda parte del viaggio.

    Due nuove voci, infine, si aggiungeranno al team: la professoressa Beatrice Biancardi e il professor Loris Nobetti.

    L’incontro inizierà alle ore 21:00 e si terrà all’aperto (tempo permettendo).

    Dante d'arte

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  • arte,  arte contemporanea,  arte oggi,  attualità

    Giovanni Morbin racconta Something Else

    L’artista ci parla personalmente della sua arte e della sua vita rispondendo alle nostre domande sulla mostra Something Else.

    Giovanni Morbin, lei è nato nel 1956, non ha vissuto perciò sulla sua pelle l’educazione, la propaganda e tutto ciò che ruotava attorno allo stato fascista. Lo hanno fatto però i suoi genitori, il suo maestro Emilio Vedova e l’intera generazione che l’ha preceduta.

    Crede che qualcosa di quell’esperienza sia passato, anche se sotto forma di muto travaso, nella sua infanzia e giovinezza?

    Ovvio che sì. I nonni e i padri della mia generazione sono persone fortemente e direttamente coinvolte, non solo nel secondo conflitto, ma anche nel primo conflitto. Quindi sul piano domestico non credo ci sia stata famiglia in cui non fosse presente una narrazione su questi episodi. Credo che questa, nel bene o nel male, abbia totalmente pervaso la mia generazione. Penso anche che gli accadimenti degli anni Sessanta e Settanta siano una forma di deriva di questa eredità politica e culturale.

    Presenza e assenza di ideologie

    C’è anche un altro aspetto interessante. Si dice, e trovo che sia un banalissimo luogo comune (perché è chiaro che molte delle cose che si vogliono far esistere sono anche quelle che vengono veicolate attraverso tutta una serie di canali molto complessi) che la maggior differenza tra le generazioni degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta e quelle contemporanee, sia l’assenza d’ideologia. Ora, io nasco culturalmente da padri, chiamiamoli così, per i quali l’intellettuale ha il dovere e anche il diritto di prendere posizione su cose importanti che regolano la convivenza sociale, civile, politica, etica, eccetera.

    Io sono cresciuto con queste paternità e, anche se non ho preso tutto di quelle paternità, certamente ho sentito un forte richiamo. Sono totalmente convinto che gli intellettuali siano un elemento importante in ciò che concorre a costruire l’architettura di una società a tutti i suoi livelli. Qualche volta gli intellettuali non possono sottrarsi dal prendere una posizione. Sfiorando il contemporaneo, dico che fortunatamente nelle giovani generazioni c’è una forma di ritorno ad un sentimento di questo tipo. C’è un nuovo sentimento di responsabilità, un sentimento di impossibilità di evadere certe tematiche. Questo fattore lo trovo molto interessante e mi fa sentire bene in quanto potrebbe essere l’immagine della cultura contemporanea.

    Una speranza?

    Aggiungo un’ultima cosa. Credo che la sezione di Simone Frangi all’interno della Quadriennale abbia in questo senso dato una visione molto efficace di questa forma di speranza. Certamente non lo ha fatto nella maniera così didascalica come accadeva negli anni Sessanta e Settanta. Lo ha fatto in modo poetico, ma lo ha fatto anche in un modo fortemente affermativo. Forse cambia la cifra dell’affermazione: non è più necessario ragionare sul simbolo, non è più necessaria l’affiliazione ad una “araldica”, però è il sentire di un individuo che dice “No! adesso, dopo tanto qualunque, sento di dovere prendere una posizione nuovamente”. E questo è molto interessante, perché secondo me oggi è stato sdoganato fin troppo.

    La formazione e la forma

    In unintervista con Daniele Capra pubblicata nel catalogo della mostra Something Else lei afferma che il Liceo Artistico illuminò di un nuovo significato il suo percorso didattico. Inoltre disse che tutti i suoi punti deboli vennero visti «come accenti preziosi, particolari che andavano sviscerati, coccolati e sviluppati – e segue – la drammatica insensatezza di gesti e pensieri del prima, divenne l’inutile necessario».

    Particolari, gesti, accenti, sembrano anche essere il punto di partenza di molte delle opere in mostra: da dove vengono e dove vanno?

    La frase che hai citato si riferisce maggiormente alla mia formazione pre-artistica, perché prima di approdare al liceo artistico feci una scuola tecnico-pratica: l’Istituto tecnico-industriale. Benché mi piacesse, perché ti confesso che ancora oggi sfrutto conoscenze e competenze sviluppate anche in questo tipo di scolarizzazione, non riuscivo a viverci. Per me era troppo caserma. Tutto ciò che prima non aveva senso, tutto ciò che prima produceva risultati negativi, immediatamente dopo in un batter d’ali, ciò che un secondo prima era negativo in questo nuovo contesto (il liceo artistico) prendeva forma positiva. Le cose per cui prima prendevo tre, quattro e per le quali ero perseguito, a livello scolastico si intende, improvvisamente diventavano cenni preziosi di riconoscimento. Questo per me fu scioccante, perché non capivo.

    Pittura o performance?

    Sulla questione formale credo che proprio questa formazione tecnica abbia forgiato nella mia produzione o meglio nella formalizzazione delle mie idee, unattenzione particolare alla forma compiuta. Se tu guardi i miei lavori, anche in quelli in cui parlo di atomizzazione e di dispersione materiale, c’è una riconduzione alla forma secondo un atteggiamento quasi platonico, di riordino. Emerge l’esigenza di mettere ordine, di precisare, di rendere nitida la materia. 

    Sul piano invece di relazione tra forma e corpo, da subito ho capito che non avrei potuto diventare un pittore. Non perché non mi piacesse la pittura, anzi avrei voluto fortemente diventare un pittore, ma per me la pittura era troppo lenta e quindi avevo bisogno di una forma di produzione bio-ritmica che mi corrispondesse maggiormente. Dunque l’azione, e di conseguenza la performance, era lo scarto minimo tra il pensare e l’agire, tra il pensare e la realizzazione dell’idea. Nelle mie sculture e nei miei lavori c’è infatti un’attenzione molto forte per il corpo e i comportamenti.


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    Giovanni Morbin: cosa è il fascismo?

    In Capire il potere (2002) Noam Chomsky sosteneva che fascista è qualsiasi «ideologia basata sulla dominanza, sull’egemonia e sulla supremazia dell’individuo sull’individuo, spinta da qualsiasi ragione o necessità, e frequentemente alimentata da informazioni false o manipolate». In quest’ottica quale è il fascismo o i fascismi che maggiormente ha scelto di trattare nei suoi lavori?

    È molto facile: è quello più subdolo, è quello meno scultoreo, è quello meno visibile. Senza entrare nel merito di quelle che sono le novità o le evoluzioni della politica contemporanea, da sempre credo che le cose più pericolose siano quelle che meno mostrano il loro volto e quando ti appaiono si fanno immagine (e qui sta la relazione tra la necessità politica e la necessità artistica). Autore infatti per me è colui che trasforma in visibile cose che altrimenti sarebbero poco riconoscibili, dà forma alle idee. 

    Io penso che riprendendo i doveri della vita intellettuale ci sia anche quella di avere la responsabilità di rendere visibili cose che sembrano non essere. Questo lo dico legato a significati e significanti nel campo dell’arte, per cui opera è ciò che si vede (si chiamano appunto arti visive) mentre secondo me, vi sono anche realtà artistiche che sfuggono alla vista. Uso un esempio che mi è molto caro per spiegarmi. L’evoluzione della specie è una grande opera in atto e non è visibile semplicemente perché troppo lenta e quindi, forse, siamo noi che non riusciamo a vedere un fenomeno che è innato. Allo stesso modo penso del contemporaneo.

    Un’obbligo: mostrare embrioni di verità

    Penso che un autore abbia l’obbligo di mostrare embrioni di verità anche se a volte possono essere scomodi. Inoltre come dicevo prima, un intellettuale non può sottrarsi al fatto di prendere posizione su alcune urgenze. Per questo motivo ciò che delle tristezze politiche mi interessa porre in evidenza sono gli aspetti fuggevoli, perché quelli maggiormente didascalici e più evidenti non serve che siano svelati, sono già flagranti abbastanza. Le cose più subdole invece sono quelle che si offrono al limite della visibilità, e allora, lì subentra la necessità di svelarle. 

    Potrei citare un altro autore che mi è molto caro e che è anche molto diverso da me, perché lui lavorava su un’altra frequenza di questi lavori, penso a Fabio Mauri, che generazionalmente aveva molte più ragioni di me nel toccare e nell’avvicinarsi ad alcune contraddizioni. Credo contraddizioni sia il termine esatto. 

    Giovanni Morbin, Pasolini e la libertà

    Proprio Fabio Mauri invitò Pier Paolo Pasolini a vedere una prova di Che cos’è il fascismo (1971). In un articolo sul Corriere della Sera (Sfida ai dirigenti della televisione, Domenica 9 dicembre 1973) Pasolini scrisse alcuni anni dopo queste parole: «Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto la televisione), non solo l’ha scalfita ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre». Anche Pasolini aveva individuato dei fascismi meta-storici che erano parte integrante della sua epoca, potremmo usare le stesse parole oggi?

    Fabio Mauri e Pier Paolo Pasolini durante le prove di Che cos’è il fascismo.

    Non riesco ad aggiungere nulla. Dall’inizio degli Novanta ad oggi da questo punto di vista sono stati fatti disastri, ma i disastri sul piano della comunicazione e sul piano del veicolo immaginifico sono purtroppo molto antecedenti a questo. Credo si sia cercato in tutti i modi di inoculare una forma di disimpegno, che da un lato è anche comprensibile, perché penso che il periodo del terrorismo abbia fatto danni a tutti i livelli della società. Ha fatto danni perché ha creato miraggi, ha creato finte visioni che non hanno fatto bene a nessuno, ma al tempo stesso hanno reso possibile ciò che è avvenuto immediatamente dopo.

    Credo che la mia generazione sia quella che da questo punto di vista abbia pagato il maggior prezzo, perché è quella che ha gustato le ultime propaggini della libertà ad ampio raggio e immediatamente dopo se l’è vista sottrarre. Tutto ciò che fino ad un certo punto era possibile, immaginabile ed eseguibile, la mattina dopo non era più concesso. 

    La fiducia nel prossimo

    Faccio un esempio stupidissimo per quello che è l’esercizio di una forma di immaginario, tu pensa all’autostop. Quando avevo vent’anni tutte le strade, comprese quelle dei paesini di provincia, erano invase da persone che si spostavano in questo modo; oggi potresti rimanere anche giorni per strada senza che qualcuno ti dia un passaggio. E credo che ci sia una ragione: oggi non ci si fida più di nessuno, si vedono nemici ovunque, quindi figurati se tu ti puoi sentire sicuro e rilassato nel concedere passaggi a qualcuno. Sono piccole cose. Io ricordo che quando frequentavo l’accademia, sulla scalinata della stazione di Venezia nei periodi estivi dormivano più di cinquecento persone, oggi ti fanno la multa se ti siedi e semplicemente mangi un panino.

    Leggi anche: Something Else – Memorie di fascismi presenti

    Libero

    Veniamo alla serie di opere collegate al saluto romano. Nel ready-made Libero e nei differenti collage c’è ante litteram il procedimento che sta alla base della scultura L’angolo del saluto? Quale è il significato delle parole ‘prima’ e ‘dopo’ nella copertina di Libero?

    Libero Giovanni Morbin
    Giovanni Morbin, Libero

    Il prima e il dopo

    Questa è una bella domanda, quel prima e dopo lì va letto a diversi livelli. Innanzi tutto quando vidi quel libro mi venne in mente subito il lavoro di Penone. Il lavoro di Penone che cerca e trova l’albero dentro la trave e, per disvelarlo, ha bisogno di togliere materia e di arrivare al nervo centrale di ciò che rimane dell’albero. Toglie la materia che nasconde l’albero nella trave. Ora, in questo libro qui quando vidi la copertina, vidi la scultura, perché il braccio teso di Mussolini è il perimetro superiore dell’angolo del saluto, ne è il limite superiore. È curioso che il popolo sia compresso sotto il braccio. Se tu guardi la copertina c’è un brulichio di teste che sono compresse in questo prisma in basso a sinistra del libro e sono compresse proprio nella forma che puoi ricavare tagliando quella copertina.

    Aggiungi poi il fatto che, tagliandola, non hai una compattezza bidimensionale, ma hai uno strato di pagine le quali, leggermente aperte, danno origine a quella che poi diventerà la forma della scultura.

    Prima e dopo Giovanni Morbin

    Il prima e il dopo ha a che fare anche con storia e contemporaneo. Uso retaggi e icone storiche per poter parlare di contemporaneo. Così come se tu chiedevi negli anni Trenta e negli anni Quaranta se qualcuno era fascista tutti ti avrebbero detto «noi eravamo fascisti!», improvvisamente negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta nessuno lo era mai stato, non c’era più nessuno che poteva confermare questa realtà storica delle cose. 

    Eppure dagli anni Novanta in poi invece, come la brace sotto la cenere, si è risvegliato un rigurgito. È come se ci fosse stata una realtà sopita. Come una zecca che aspetta che passi un corpo per attaccarvisi: il popolo italiano sembra aver riscoperto l’orgoglio fascista.

    Il volume d’aria dell’angolo del saluto

    La folla di Libero nelle opere successive viene meno, lasciando un vuoto, che senso ha quel volume?

    Prima di tutto quel volume, che diventa poi scultura, per me rappresentava una specie di volume d’aria che si concretizza nell’atto di fare il saluto fascista. Tutte le azioni producono uno spostamento d’aria, e quando l’aria si sposta, gli effetti di questo spostamento tu li vedi non sul punto d’origine dello spostamento, ma li vedi come un’onda d’urto, come una specie di tsunami immateriale e questo scarto per me è alla radice dell’invisibilità delle cose. L’invisibilità di quel gesto sta in quel volume d’aria e in quanto aria (fluido trasparente), ma sta anche nel fatto che quel volume d’aria si sposta in avanti come una prua di una nave, come una lama e tu gli effetti di questo spostamento non li vedi perché li trovi cento metri più avanti.

    Fascismi educati

    Poi quest’idea dell’invisibilità ha molto a che fare con i neofascismi che non sono più eroici, che non sono più didascalici, che non sono più efficaci. Non rappresentano più le percentuali minime di radicalismi politici che racimolavano fortunatamente un consenso molto limitato nella società. Ma è molto più radicata e condivisa un’idea di fascismo patinato, di fascismo educato, di fascismo perbenista, di fascismo borghese, benestante e, apparentemente, anche benevolo

    È interessante sentire le affermazioni di Lele Mora che, nell’intervista ad un giornalista, si vanta di avere come suoneria telefonica Faccetta nera, oppure di alcune uscite di altri personaggi che sono molto appetibili tra le nuove generazioni e che costituiscono un veicolo immaginifico molto più efficace di qualsiasi testo politico, di qualsiasi didascalia politica e di qualsiasi sigillo ideale di partito. Questo credo sia riconducibile anche a una contemporaneità molto edonista e cinica, Una contemporaneità che sul piano etico non sente più la necessità di prendere parte a qualcosa con il proprio contributo, cioè come dicevo prima, di prendere una posizione là dove non si può più stare zitti.

    Uno stampo per compiere un’azione

    Quale valore ha l’obliterazione del corpo dalla scultura l’angolo del saluto, e di contrasto, il ridare corpo al saluto attraverso la sua persona nella performance di Rijeka?

    Dopo una prima fase comportamentista a partire dagli anni Novanta mi è interessato molto costruire dispositivi che potessero essere utili ad altri, sculture fatte per essere utilizzate, sculture come forme di presa di coscienza. Nell’utilizzo che possiamo fare di queste sculture, mi piace l’idea di sculture che possano essere toccate che possano essere utilizzate. Questa cosa è totalmente in antitesi con l’idea che c’è di opera d’arte nella tradizione occidentale. L’opera è la cosa, è la materia che si consegna e, una volta consegnata, diventa intoccabile in quanto rischi di corrodere la sacralità di quella materia.

    Per questa ragione L’angolo del saluto è in opposizione al corpo nel senso che è quasi un stampo per un’azione da compiere, per aver il coraggio di visualizzare il saluto e quindi di farlo. È una scultura pensata per essere utilizzata e che crea una specie di cortocircuito, una forma di contraddizione come fosse un atteggiamento situazionista di detournement, per cui non si capisce più se s’ha da fare oppure no, se cioè l’utilizzo di quella scultura come attrezzo sia edificante dell’azione stessa o detrattiva. 

    La ricerca del dubbio

    Mi interessa molto nei lavori di sancire un plausibile dubbio, un plausibile interrogativo verso la sollevazione del problema e lasciare che sia l’interlocutore a ragionare sul fatto che l’azione possa essere qualcosa o un’altra, mi piace l’idea della contraddizione

    Alla fine degli anni Settanta Gianfranco Sanguinetti in un clima di acuto terrorismo scrisse un testo che si chiamava Del terrorismo e dello Stato. A Venezia per esempio quando si lesse questo libro circolò la notizia che a scriverlo fosse stato un componente della destra eversiva e questo non era assolutamente vero. Ma la nitidezza del testo, l’ambiguità che il testo lasciava, la sua durezza e i discorsi davvero taglienti, ti lasciavano nel dubbio. Per me questa idea del dubbio non è una volontà ‘ponzio-pilatica’, non è la promozione di una forma di assenteismo, ma è l’elemento che potrebbe rompere un’inerzia per cui tu, a un certo punto, devi capire come usare queste cose e devi farlo prendendo coscienza di quello che fai.

    Quando esposi questa scultura alla Quadriennale di Roma ci fu anche il tentativo di documentare quasi segretamente l’uso che potenzialmente potevano fare gli spettatori. Dico potenzialmente perché la collocammo quasi furtivamente alla fine di questa sezione curata da Simone Frangi e questa scultura con un collage potevano anche indurre lo spettatore a liberarsi in azioni di qualsiasi tipo. A me sarebbe piaciuto poter documentare questa cosa, quasi come se fosse una scultura catartica, che libera le inibizioni, che ti fa essere ciò che sei.

    Giovanni Morbin, L'angolo del saluto
    Giovanni Morbin, L’angolo del saluto

    L’angolo del saluto: una scena pericolosa

    La forma verticale e minacciosa della scultura L’angolo del saluto ha alla sua origine riferimenti a strutture come il Panhopticon, a monumenti totemici di un qualche potere religioso o alla rivoluzionaria ghigliottina?

    Sul piano archetipico questa forma ha molte eredità. Prima parlavo di un volume d’aria che mostra gli effetti cento metri più avanti, e quindi pensavo alla prua di una nave, di un rompighiaccio. La forma è di eredità futurista, dinamica, tagliente, inossidabile, e qui stiamo parlando della lama; ma dietro la lama c’è poi un mobile baracca, un mobile fatto di un materiale forse tra i più poveri, molto attaccabile (se ci appoggi la mano ci rimane l’impronta), molto vulnerabile, si graffia con un’unghia. Ha una compattezza solamente apparente. Ho detto prima mobile baracca perché mi faceva pensare al carro armato, alla differenza di mezzi che avevamo nella guerra d’Africa, mi faceva pensare all’impossibilità di una cosa, piuttosto che alla possibilità, che alla solidità.

    L’idea della composizione mi è venuta in un mercato rionale, un giorno bevendo l’aperitivo ero di fronte ad un banchetto di un venditore che aveva solo calzini, due cavalletti e un piano. Era l’ultimo ad arrivare, facendosi strada tra i furgoni, ed era il primo ad andarsene. Questa cosa mi colpì molto finché non pensai alla composizione di questa scultura. Ha un impianto scenografico molto efficace, ma ha una sostanza molto cedevole. La lama ad esempio è molto tagliente, è acciaio pieno ed è appoggiata al mobile solo attraverso sei calamite, quindi non è in alcun modo assicurata al mobile. Quando tu prima parlavi di ghigliottina inconsapevolmente hai detto bene. Lungi da me creare una situazione di pericolo per gli spettatori, ma l’idea è proprio quella di una lama incombente che in un qualsiasi momento ti può affettare.

    Una foto e il suo riflesso: ON / OFF

    Nell’istallazione ON/OFF pone uno specchio di fronte una foto stampata al contrario. In questo caso è l’artista a mostrare la verità o deve essere lo spettatore a riconoscere il suo ‘io fascista’ celato dietro l’apparente antifascismo?

    Giovanni Morbin, On / Off
    Giovanni Morbin, On / Off

    Sai è la storia di Narciso, è la storia dell’immagine e dello specchio, del volto e dello specchio. In questo caso però ognuno vede ciò che vuole. Quello che mi eccitava dell’immagine è che anche solo per un secondo tu non sai se quello che tu chiamavi capovolgimento del negativo è una scelta deliberata (e quindi un piccolo gesto rivoluzionario del fotografo) oppure è semplicemente una svista. Il discorso del dubbio mi ricorda l’atteggiamento dei pittori del Cinquecento e del Seicento che facevano piccoli gesti di disobbedienza introducendo nelle opere elementi quasi invisibili e che, se riconoscibili, potevano anche portare a gesti di persecuzione per l’autore.

    C’è però un elemento che pochi riescono a riconoscere: sull’estrema destra c’è una figura che si vede solo fino alle spalle, ed è una figura maschile in giacca e pantaloni con la testa coperta da un vaso. È una figura inquietante, è una specie di mostro, di ibrido imprecisato. È quasi una figura di controllore, non si sa bene se sta dietro al vaso, se si veste del vaso. Sembra quasi fosse un animale mitologico un uomo-toro, uomo-cavallo, è una figura comunque molto inquietante, che accompagna questa armata brancaleone di persone che salutano con la sinistra. È una foto che mi fa venire in mente ad esempio Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti.

    Il singhiozzo di un oratore

    La parola è indirettamente chiamata in causa nelle opere Hiccup e Libero. Innanzitutto, di quale vinile si tratta? e in che relazione è con i discorsi di “prima” e quelli di “dopo”?

    È un’edizione degli anni Cinquanta o Sessanta che raccoglie una sezione dei discorsi di Mussolini. Non è un reperto della vera storia fascista, ma della storia immediatamente postuma. Sinceramente quello che mi interessava di questo disco era la sua sacralità, la sua ragione celebrativa. Mi piaceva sfruttarne l’inerzia, ovvero far girare secondo la più banale normalità il vinile sul piatto, sottraendone però uno spicchio, mettendo in evidenza quel famoso volume d’aria, ma questa volta non creandolo, non materializzandolo, bensì sottraendolo. In questo modo viene a crearsi una specie di distonia funzionale per la quale diventa quasi tragicomico l’idea che a un dittatore venga il singhiozzo nel massimo momento aulico della parola, cioè nel momento in cui sta parlando alla folla. Te lo immagini un oratore o un attore classico che subisce l’umiliazione del singhiozzo durante la recitazione?

    Hiccup Giovanni Morbin
    Giovanni Morbin, Hiccup

    Questa cosa qua mi faceva ancora una volta sgretolare i contenuti, perché rompe la sacralità della recitazione, la sacralità dell’arte oratoria, in un secondo sdrammatizzi tutto quello che è il pathos che contiene quel discorso.

    Ovviamente c’è una cifra ironica e anche questo lo trovo molto collegato al contemporaneo. Collegato cioè ad un’oralità veramente posticcia, a personaggi che oggi si guardano filmati di Mussolini per carpirne i segreti per poter ripercorrere contemporaneamente le funzionalità di quell’oralità lì.

    Io penso che qualcuno nel recente passato politico italiano abbia fatto incetta di questo tipo di documentazioni e quando dico qualcuno non è che voglio sottrarmi all’identificazione, ma dico qualcuno perché penso proprio che siano più di uno.

    Un discorso autolesionista

    La cosa che mi interessava molto era la voce, una specie di simulacro, è come se avessi un fantasma in casa. È un po’ come coloro che non cancellano dalla rubrica del telefono il numero di una persona cara che è morta, averlo lì in rubrica è come se fosse ancora vivo, è come riperpetuare la sua presenza nella quotidianità. Ho scelto anche ovviamente di farlo su un disco che avesse un testo molto efficace come quello delle sanzioni e delle dichiarazioni di guerra. Ci tengo anche a dire un’altra cosa sull’utilizzo di Hiccup: nella dinamica del disco che gira sul piatto, l’azione della puntina è in un certo senso autolesionista, perché a forza di saltare la testina si rompe.

    La metafora delle teste rotte ha molto a che fare con il contemporaneo, ha a che fare con teste che sono fisicamente rotte ma ha a che fare con teste che sono metaforicamente rotte, rotte dai contenuti più che dalle contusioni.

    Me la performance

    Nella performance Me lei tenta di dire una dichiarazione di guerra pronunciata da Mussolini, ci sono dei precedenti perforativi a cui si è ispirato o gli unici riferimenti erano quello storico e quello artistico con la scultura di Bertelli?

    In questo lavoro il punto nodale è il “fuori fuoco”. Il discorso parte dal Profilo continuo del duce di Renato Bertelli che tu hai citato e che paradossalmente è un errore sintattico rispetto alla tradizione, tradizione che ha pervaso la formalizzazione dell’ideologia fascista.

    Mi incuriosiva che questo ritratto di Mussolini fosse uno di quelli più celebri e ricorrente nelle produzioni artistiche ma che fosse un errore sintattico, un fuori fuoco. Se tu fai una foto fuori fuoco è come se tu avessi fallito un lavoro. Per paradosso in questo caso diventa il valore del lavoro. Come paradossale diventa anche la sottolineatura dello scollamento che c’è tra avanguardia artistica e avanguardia fascista. Il fascismo non si è mai fatto rappresentare dal futurismo, ma il futurismo ha tentato in tutti i modi di poterlo fare

    Quello che ritengo curioso è il fatto che scultura futurista parla totalmente il linguaggio della macchina e non dell’uomo. Questa scultura esiste perché è stato costruito il tornio, altrimenti non sarebbe mai esistita. Al tempo stesso è la non rappresentazione dell’immagine di un dittatore e questa cosa mi interessava perché la non rappresentazione produce anche il non visibile.

    E proprio questa invisibilità, questo sottrarsi, per me ha a che fare ancora una volta con il contemporaneo di cui parlavamo prima; un contemporaneo che, se è pericoloso e invisibile, è doppiamente pericoloso e quando te en accorgi è troppo tardi.

    E la scritta Me?

    La scritta «Me» è invece collegata al fatto che in quel momento vedevo adesioni sperticate ad un nuovo modo di essere di destra. Non so se posso dire ad un nuovo modo di riaffermare il fascismo, perché non penso sia questa cosa qua, ma improvvisamente nessuno si vergognava più di dire «sono di destra», «il fascismo non è stato così negativo come sembrerebbe», «Mussolini non è stato così negativo così come la storia ci ha raccontato finora». Improvvisamente tutti si sono riscoperti fascisti. E infatti dico, così come «una volta eravamo tutti fascisti» è un modo per minimizzare l’auto-responsabilità e la partecipazione alle cose più tragiche di quell’evento storico, allo stesso modo oggi quando accade qualcosa, si minimizza il tutto come se fosse una specie di goliardia. In inglese si dice Juvenile attitude, come fosse un eccesso giovanile.

    Me performance
    Giovanni Morbin, Me performance

    Quindi per me quella «M» che formalmente è mussoliniana, insieme con la «e», diventano pronome personale. Starebbe a dire: «Va bene oggi tutti si riscoprono fascisti, nessuno si vergogna più di dire che qualcuno è fascista». 

    Per cui all’origine dell’azione c’è questo atteggiamento: «OK! improvvisamente tutti si riscoprono fascisti, ci provo anche io, anche io volevo essere fascista». Lo faccio nel modo in cui lo vedo oggi, nel modo garbato (avevo un bel vestitino Dolce e Gabbana). In questa azione ripeto il tentativo di dichiarare guerra sette volte e ogni volta cado fragorosamente e dolorosamente. Al termine del settimo tentativo esco e scrivo «Me» nel senso che «questo sono io, scusate, ci ho provato ma non riesco, non ce la faccio!».

    Me: l’istallazione di Valdagno

    Questo «Me» nell’istallazione che feci a Valdagno poi, diventa ancora di più pronome personale. Valdagno è una città per metà costruita tra il 1928 e gli anni successivi. E quella città fu costruita interamente sulla carta da un unico architetto: il Bonfanti.

    Un progetto che fu realizzato ad hoc e che doveva essere l’immagine di un fascismo nascente. Io ho vissuto tutto la mia giovinezza a Valdagno e ho trovato i valdagnesi molto diversi da tutti gli altri abitanti della vallata. Questo non si significa che tutti i valdagnesi siano fascisti, non sto dicendo questo, ma credo che un’imprinting di quel tipo di realtà lì, sia rimasto nei cittadini. Valdagno era la città modello italiana, comparsa dall’anonimato nelle prime pagine dell’epoca. Una città che fino agli anni Settanta grazie anche all’opera di Marzotto aveva proposte culturali di primo piano.

    Me Morbin Giovanni
    Giovanni Morbin, Me

    Anche il periodo fascista, trasversalmente a tutto ciò che possiamo pensare e dire, ha sempre avuto non dico un elemento giustificativo, ma insieme a tutta la negatività, è emersa anche la positività di un periodo che ha costruito una città. Una città in cui c’erano i primi bagni interni. Una città che aveva una piscina coperta con profondità di sei metri. Una città che aveva uno stadio degno della serie A. Una città che aveva una rete ferroviaria e un’industria fiorente. Una città famiglia, una città industria. Tutto doveva essere nei paraggi una specie di riedizione della città sociale inglese il cui esempio precedente era quello di Aldo Rossi a Schio. Una città che davvero faceva concorrenza a molte realtà urbane.

    Quindi quando applicai la «e» accanto alla «M», quell’aggiunta significava per me identificava un inconscio collettivo, una specie di imprinting trans-ideologico, secondo cui un pochino comunque è rimasto negli abitanti di quella realtà passata.

    Something Else la performance

    Questa scelta di invadere il quotidiano, di cercare lo spettatore nel passante, nel cittadino, nell’osservatore, accomuna questa istallazione di cui abbiamo parlato alla performance Something Else. Quali sono state le reazioni a queste sue azioni?

    Per quanto riguarda l’istallazione «Me» la destra valdagnese ha protestato ferocemente con la scusa che quello era un edificio storico che non poteva essere modificato. In entrambi i casi penso che quello che mi interessava fosse quest’aspetto casual, questa forma di detournement ancora una volta. Puoi parlare fino allo sfinimento di certe problematiche, ma se uno non le vuole vedere, se non realizza con la propria testa, tu puoi fare ben poco. Creare delle forme dubitative nelle certezze del contemporaneo, per conto mio, in un mondo in cui sei bombardato di certezze, di immagini e di sollecitazioni ,è molto più efficace che utilizzare strumenti didascalicamente affermativi.

    L’insinuazione del dubbio quantomeno ti fa arretrare e ragionare un attimo ed è quello che a me interessava. Poi devo dire che le due cose sono molto diverse. 

    La prima è più smaccata: è un edificio che non passa inosservato. Una volta che poi uno si accorge di quella nuova presenza, il tam tam popolare fa il resto. 

    Un’azione di detournement

    Something else è più sottile perché non è un’operazione statica. È un’azione diversa dall’istallazione, e ha una cifra ortopedica per cui davvero io avevo un busto fino qua in gesso che sosteneva il braccio. Molti mi guardavano un po’ strano. Molti non capivano cioè, non si sapeva poi fino in fondo se quella cosa era un problema ortopedico o se aveva a che fare con l’eredità storica del luogo. D’altra parte l’utilizzo del titolo appare anche in una canzone dei Sex Pistols, Something else. “E’ qualcos’altro”, ha a che fare ancora una volta con il detournement. Le cose molto spesso non sono quelle che sembrano.

    Ma perché Something Else?

    Concludiamo appunto con il titolo della mostra: «When it all comes true, man, that’s something else» sono parole della canzone resa nota da Sid Vicious e dai Sex Pistols da cui trae ispirazione per il titolo della mostra, quanto deve a quegli anni?

    La mia è la generazione Punk, io nasco con quella realtà lì, io ascoltavo gli Stranglers, i Black Flag i Dead Kennedys. Io nel 1977 avevo vent’anni e i miei modelli son stati per pochissimo tempo i modelli del rock, poi trasformati nei modelli del Punk con tutte le loro contraddizioni.

    Se tu guardi gli azionisti viennesi, alcune azioni di Günter Brus, quando si taglia con una lametta indossando una camicia bianca e disegna con il sangue sul bianco della camicia, queste sono azioni che Johnny Rotten faceva sul palco durante i concerti. Non so fino a che punto siano coincidenze, mi piace pensare che non lo siano. Ma ti dico di più, negli anni Ottanta abitavo a Londra e fecero una mostra sul situazionismo in cui si parlava del contributo Sex Pistols all’attività situazionista; vai a vedere quanto consapevolmente o quanto inconsapevolmente. È chiaro che questi appuntamenti storici hanno fortemente segnato anche il mio modo di essere, quest’idea dell’alternatività.

    La mia prima mostra dentro al sistema dell’arte è stata fatta nel 2005. Non perché io non avessi avuto precedenti opportunità, ma perché fino a quella data io non ho voluto avere a che fare con i musei, con i curatori, con gli espositori. Questa è anche la ragione per la quale le pubblicazioni sui miei lavori iniziano ad uscire adesso. Quell’assenza dal sistema dell’arte ha a che fare anche con una forma di alternatività di quegli anni lì.

    E infine Belvedere: l’altezza e il potere

    Un’ultima curiosità: nel 2009 lei realizza Belvedere, nello stesso anno Maurizio Cattelan presenta la sua opera Untitled (testa in uno stivale nero) ci sono riferimenti?

    No alcun riferimento. Qualcuno ha visto nella mia opera il tacco maggiorato di Berlusconi e devo dire che ci ho anche pensato, ma se avessi fatto quel lavoro con quell’intento sarebbe diventato didascalico. ‘Sua altezza’: quando parliamo di riferimenti nobiliari facciamo sempre riferimento all’altezza. Se tu pensi ai Watussi in Africa, la tribù è molto famosa per avere altezze medie elevate. Ogni riferimento all’altezza porta con sé un’accezione nobiliare, una cifra che ti toglie dal luogo comune e questo mi interessava.

    Alla fine dell’Ottocento nasce il concetto di belvedere. Le persone si recano in alta montagna e arrivati al toppo costruiscono una forma d’impalcatura che eleva di qualche metro la realtà minerale della montagna. Quasi come se quei due o tre metri in più fossero quelli che ti svelano cosa sta dietro l’orizzonte. Eppure non c’è mai fine ad un orizzonte. Questa cosa mi interessava molto perché ha a che fare con il potere, con il potere di stare sopra qualcuno, di essere più alto. 

    Belvedere Morbin
    Giovanni Morbin, Belvedere

    Un artista fluxus ripercorrendo la storia del teatro sostiene che il teatro classico palladiano o dello Scamozzi ricostruisce l’impianto dell’architettura sociale dell’epoca. Qui infatti l’occhio dello spettatore sta sotto, un po’ sopra c’è quello dell’attore, ancora sopra quello del re. La dimensione posturale del teatro ricostruisce quella che è l’architettura sociale. Mi interessava anche perché solleva un problema coreografico. Nella fattispecie è da un po’ che sto costruendo una coreografia della gravità, una danza da fare sui tacchi. Una danza che non è più della leggerezza (sulle punte) ma è della pesantezza e s’ha da fare sui tacchi.

    Togliere i piedi dalla polvere

    E quindi per me quel tacco è l’elemento che rende nobile ciò che sta sopra, che rende il piede ‘in stallo’. Ad esempio le sculture sacre classiche che riproducevano l’effige della deità avevano forme antropomorfe perché si doveva veicolare l’immagine di un dio e non si poteva fare in forma astratta, ma dando sembianza umana agli déi, tu correvi il rischio di offendere la deità,  di renderla troppo materiale.

    Ora, elevare, togliere il piede dalla polvere, togliere il piede dalle terra, significava dare loro la nobiltà che richiedevano. Per quanto riguarda la scultura quindi, quel tacco toglie il piede dalla polvere, ma allo stesso tempo (il piede) rimane la cosa più sporca che il corpo ha. Chi è che comprerebbe una scarpa come opera? Chi è che farebbe elegia del piede? Mi interessava in questa come in altre opere l’idea dell’anti-grazioso, dell’anti-grazioso boccioniano, e quindi come diceva Umberto Eco, la bruttezza in arte. 

  • arte

    InSEDIAmenti – itinerario artistico

    Dopo un così complesso anno scolastico il chiostro della scuola secondaria di I grado Giuseppe Piermarini (Istituto Comprensivo Foligno 1) si colora di speranze, emozioni, gratitudine. L’Itinerario artistico InSEDIAmenti, curato da Maria Grazia Guglielmi e Michelangelo Matilli con l’aiuto prezioso dei docenti e dei collaboratori scolastici, è stato possibile grazie all’immaginazione e al lavoro di studenti e studentesse di tutte le classi che, negli anni, hanno dato vita a queste opere.

    Ogni volta che riflettiamo sul significato di apprendimento creativo non ci riferiamo a una semplice trasmissione di conoscenze, ma all’ idea di una configurazione del pensiero, che ristruttura se stesso costantemente, che si evolve per costruire prima una rappresentazione mentale e poi un prodotto significativo, dunque qualcosa di visibile, tangibile e concreto.

    In questo contesto, ogni ambiente di apprendimento, è soprattutto un sistema di relazioni dinamiche e reciproche tra i suoi componenti, uno spazio aperto e interattivo, un contenitore flessibile, mutevole, sempre cooperativo e condivisibile.

    Insediamenti Poesia

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    InSEDIAmenti: un itinerario artistico in divenire

    InSEDIAmenti: questo temporaneo allestimento, continuamente in divenire, si propone come itinerario artistico rivolto alla possibilità di esplorare lo spazio progettuale della creativitá.

    Il suo obiettivo è far maturare la consapevolezza che ciascuno di noi, ovunque si trovi, nel percepire la realtà sensibile che lo circonda, dispone della capacità di immaginare e, successivamente, di trasformare quell’esperienza nell’attitudine alla “doppia visione”,all’andare Oltre, una soglia invisibile, aperta che attraversiamo continuamente per stabilire connessioni reciproche, dinamiche tra noi e il mondo, per costruire dimensioni nuove, mutevoli, talvolta poetiche.

    Insediamenti

    Questo duplice sguardo su noi stessi e sul contesto quotidiano della nostra esistenza è lo strumento più prezioso che abbiamo cercato di valorizzare e condividere, oltrepassando il limite fisico di qualunque aula e del tempo misurabile di una lezione.

    INsediamenti Leone d'argento

    Il lavoro si fonda sulla convinzione che ci “appartiene” non solo ciò che realizziamo, ma anche quello che comprendiamo, che modifica il nostro punto di vista, nutre pensieri, sentimenti, emozioni e che può essere affidato a chi, dopo di noi, saprà non solo averne cura, ma anche arricchirlo di senso e di ulteriori possibilità espressive.

    Da sedie dimenticate a… InSEDIAmenti.

    Le nostre 40 sedie, un tempo accantonate e dimenticate in un ripostiglio, provenienti da un’ex aula di informatica, destinate al degrado e alla rottamazione, sono diventate “luoghi abitati e abitabili”, spazi vitali capaci di dialogare con la realtà e la fantasia, di dare voce a chi non può esprimersi, di entrare in relazione con il passato, il presente e con quel futuro che progettiamo ogni giorno.

    Sono tutte sedie tematiche o dedicate a giornate simbolicamente importanti.

    Insediamenti Gioia

    Si possono riunire o posizionare singolarmente; si rivelano interscambiabili tra loro, ricollocabili ovunque. Nella loro complessa semplicità cercano non solo di suscitare riflessioni e domande, ma anche stupore e sorrisi da condividere insieme all’osservatore.

    Infine, quello che si rivela, attraverso le voci mutevoli che animano i nostri “inSEDIAmenti”, è l’espressione corale di un sentimento di gratitudine che possiamo rivolgere verso tutto ciò che nella vita è sempre  “fonte d’ispirazione”, che ci sorprende, ci interroga, ci responsabilizza, offrendoci l’opportunità di apprezzare ciò che, per libera scelta, per caso, o per destino semplicemente accade intorno a noi.


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    Ringraziare desidero

    Poesia di Mariangela Gualtieri


    In quest’ora della sera
    da questo punto del mondo.

    Ringraziare desidero il divino
    per la diversità delle creature
    che compongono questo singolare universo,
    per la ragione,
    che non cesserà di sognare
    un qualche disegno del labirinto
    e l’uccello leggero che vola oltre, più in alto, più su.

    Ringraziare desidero per l’amore,
    che ci fa vedere gli altri come li vede la divinità,
    per il pane e il sale,
    per il mistero della rosa
    che prodiga colore e non lo vede.

    Insediamenti amicizia

    Ringraziare desidero
    per l’arte dell’amicizia,
    per l’ultima giornata di Socrate,
    per le parole che in un crepuscolo furono dette
    da una croce all’altra,
    per i fiumi segreti e immemorabili
    che convergono in noi,
    per il mare, che è un deserto risplendente
    e una cifra di cose che non sappiamo
    per il prisma di cristallo e il peso di ottone,
    per le strisce della tigre,
    per l’odore medicinale degli eucaliptus,
    e la speranza, la fiducia, la lavanda.

    Ringraziare desidero
    per il linguaggio, che può simulare la sapienza,
    per l’oblio, che annulla o modifica il passato,
    per la consuetudine,
    che ci ripete e ci conferma come uno specchio,
    per il mattino, che ci procura l’illusione di un inizio,
    per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,
    per il coraggio e la felicità degli altri,
    per la patria, sentita nei gelsomini
    per lo splendore del fuoco
    che nessun umano può guardare senza uno stupore antico
    e per il mare che è il più dolce fra tutti gli dei.

    Ringraziare desidero perché
    sono tornate le lucciole,
    le nuvole disegnano,
    le albe spargono brillanti nei prati,
    e per noi
    per quando siamo ardenti e leggeri
    per quando siamo allegri e grati.

    Io ringraziare desidero per la bellezza delle parole, natura astratta di dio
    per la lettura e la scrittura, che ci fanno sfiorare noi stessi e gli altri
    per la quiete della casa,
    per i bambini che sono nostre divinità domestiche
    per l’anima, perché consola il mio girovagare errante,
    per il respiro che è un bene immenso,
    per il fatto di avere una sorella.

    Insediamenti Frida Kahlo

    Io ringraziare desidero
    per tutti quelli che sono piccoli liberi e limpidi
    per le facce del mondo che sono varie
    per quando la notte si dorme abbracciati
    per quando siamo attenti e innamorati,
    fragili e confusi,
    cercatori indecisi.

    Ringrazio dunque
    per i nostri maestri immensi
    per tutti i baci d’amore,
    e per l’amore che ci rende impavidi.
    Per i nostri morti
    che fanno della morte un luogo abitato,
    e per i nostri vivi, che rendono la vita uno specchio fatato.
    Per i figli,
    col futuro negli occhi,
    perchè su questa terra esiste la musica,
    per la mano destra e la mano sinistra, e il loro intimo accordo
    per i gatti per i cani esseri fraterni carichi di mistero,
    per il silenzio che è la lezione più grande
    per il sole, nostro antenato.

    Ringraziare desidero
    per Whitman, Presti e Francesco d’Assisi,
    che scrissero già questa poesia,
    per il fatto che questa poesia è inesauribile
    e si confonde con la somma delle creature
    e non arriverà mai all’ultimo verso
    e cambia secondo gli uomini.

    Ringraziare desidero
    per i minuti che precedono il sonno,
    per il sonno e la morte,
    quei due tesori occulti,
    per gli intimi doni che non elenco,
    per la gran potenza d’antico amor
    per amor che muove il sole e l’altre stelle
    e muove tutto, in noi….

    Da Mariangela Gualtieri, Le giovani parole (Einaudi 2015)

    Chiostro scuola Piermarini
  • Lezione di danza di Degas
    arte,  impressionismo,  podcards

    La lezione di danza di Edgar Degas – PODCARD

    La lezione di danza è tra i dipinti più celebri di Edgar Degas. L’artista amante del balletto, realizzò molti dipinti con il medesimo tema, rendendolo uno dei soggetti più fortunati delle sua produzione artistica.

    Grazie ad un amico musicista ebbe l’opportunità di ritrarre le ballerine in una situazione del tutto privilegiata, dietro le quinte, in attesa di esibirsi sul palco dell’Opera di Parigi .

    La lezione di danza fu realizzata proprio in una di queste occasioni.

    La classe di danza 1871
    Prove di balletto sul palco 1874

    La lezione di danza di Edgar Degas

     All’interno di una grande sala prove, dall’atmosfera elegante, un gruppo di ballerine è riunito attorno al maestro, forse Jules Perrot, che con sguardo attento osserva una di loro impegnata nell’esecuzione di una variazione classica.

    Il maestro è poggiato su di un bastone, forse utilizzato per battere il tempo dei passi.

    Le altre ballerine sono disposte in semicerchio e sembrano non prestare attenzione, parlano tra di loro con fare quasi annoiato. 

    Come una foto

    La composizione ha un taglio fotografico. Le linee oblique del parquet accentuano la profondità della sala e rendono la scena dinamica e realistica.

    Nonostante la naturalezza che esprime il dipinto, tutti quei dettagli che ad una prima osservazione possono sembrare marginali irrealtà sono frutto di due mesi di studio .

    Un impressionista insolito

    Degas non rinunciò mai alla ricerca plastica e alla profondità prospettica ma allo stesso tempo come impressionista costruì il colore su giochi di luce per esaltare le figure e renderle più vere e vibranti. 

    Edgar Degas, Lezione di danza 1874
  • Raffaello pala Baglioni podcard
    arte,  podcards,  raffaello

    La Pala Baglioni di Raffaello Sanzio – PODCAST

    La deposizione di Cristo nota anche come la Pala Baglioni fu realizzata da Raffaello Sanzio nel 1507.

    L’opera fu commissionata da Atalanta Baglioni in onore del figlio Grifonetto, morto qualche anno prima.

    La pala doveva essere posta all’interno della cappella di famiglia, sull’altare del Salvatore, nella chiesa di San Francesco al Prato a Perugia. 

    Secondo il Vasari Raffaello ideò l’opera quando ormai si trovava a Firenze. Dai numerosi bozzetti preparatori sappiamo che fu un processo molto lungo.

    Descrizione dell’opera

    A dominare la scena, il corpo morente di Cristo, trasportato de tre uomini, il più giovane, al centro della tela, è Grifonetto Baglioni

    Partendo da sinistra, partecipano alla scena: San Giovanni Evangelista ( la figura con le mani giunte), Nicodemo e Maria Maddalena dipinta con la fisionomia di Zenobia Sforza, moglie di Grifonetto. 

    Dal lato opposto vediamo Maria svenuta, la quale è sorretta dalle pie donne, nel volto della Vergine Raffaello ritrae Atalanta Baglioni.

    Il confronto con Michelangelo

    In questo dipinto Raffaello crea dialogo diretto con il linguaggio espressivo del grande maestro Michelangelo Buonarroti. In particolare nel corpo abbandonato di Gesù il quale richiama direttamente quello della pietà Vaticana; mentre nella posa della donna inginocchiata verso Maria, in una posizione di torsione si riconosce una puntuale citazione del Tondo Doni

    Composizione originale

    Complessivamente l’opera si componeva di più elementi.

    Al centro vi era la pala con la La deposizione di Cristo, la quale era sormontato da una cimasa con la raffigurazione del Padre Eterno con gli angeli e con un fregio a grottesche. Nella parte inferiore vi era una predella con la rappresentazione delle Virtù teologali: la Fede, Speranza e Carità affiancate da Putti. 

    La pala Baglioni di Raffaello Sanzio: un insolito destino

    Purtroppo l’intera pala rimase solo un secolo sull’altare della cappella, una notte di marzo del 1608, l’opera con la Deposizione venne sottratta per volontà del cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V, e portata a Roma nella Galleria di famiglia, dove ancora oggi possiamo ammirarla.