• Il ballo al Moulin de la Galette
    arte,  impressionismo,  podcards

    Ballo al Moulin de la Galette-PODCARD

    Georges Rivière nel 1877 su «L’Impressioniste,Journal d’Art» descrive il dipinto dell’amico Renoir:

    «La domenica, la musica del ballo riempie la strada, e i bambini delle case vicine ballano gridando nelle corti. Intorno al ballo le strade sono piene di giovani, di famiglie intere con il loro seguito di bambini che corrono ai giochi e ai cavallini di legno sistemati lì vicino. Non ci sono che risate, grida, scherzi dalle tre fino a mezzanotte. Sempre numeroso, il pubblico del Moulin è composto esclusivamente da giovani, tra i quali vi è un certo numero di pittori che vengono a cercare dei modelli…Dalle tre di pomeriggio, le polche e le quadriglie si alternano senza interruzione.»

    Renoir realizza questa meravigliosa istantanea a colori nel 1876. La scena sembra svilupparsi oltre i margini della tela catapultando l’osservatore nell’atmosfera vivace e chiassosa della domenica al Moulin de la Galette. Percepiamo la spensieratezza, vediamo sorrisi e udiamo le musiche…a danzare insieme alla borghesia è la luce del sole parigino. 

  • Da dove veniamo?Chi siamo? Dove andiamo? di Paul Gauguin-PODCARD
    arte,  arte contemporanea,  podcards

    Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? di Paul Gauguin-PODCARD

    «Dove andiamo? – scrive all’amico de Monfreid- Una vecchia che muore. Uno strano stupido uccello che rappresenta la vanità della parola chiude il motivo. Cosa siamo? La vita di tutti i giorni. D’istinto l’uomo cerca di carpirne il senso. Da dove veniamo? L’origine. Il bambino. La vita. Dietro l’albero due figure sinistre (due donne che osano pensare al proprio destino) nei loro indumenti dai colori tristi lasciano accanto all’albero della scienza questa nota malinconia di dolore in contrasto con l’ingenua presenza di una natura vergine che si abbandona ai piaceri della vita in questo paradiso immaginario». 


    Paul Gauguin

    Quest’opera fu realizzata da Gauguin nel 1897 durante il suo soggiorno in Polinesia. Il pittore ormai lontano dall’Occidente e da esso artisticamente esiliato con il fallimento dell’ultima mostra, conferì alla tela un’intonazione sacrale, rituale e misteriosa. Un ciclo della vita, dalla morte alla nascita e ancora dalla nascita alla morte in una circolarità che pare incantata, ma che è pura vanità. Lo stesso autore dichiara futile ogni tentativo di spiegazione. «dove inizia l’esecuzione di un quadro e dove finisce?».

    I colori, l’esotismo, lo stile pittorico di Gauguin, ma oggi quanto mai, sarebbe necessario ogni giorno chiedersi: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? O forse sarebbe inutile.

  • arte,  arte contemporanea,  podcards

    L’impero delle luci di Renè Magritte-PODCARD

    Un paesaggio avvolto nel mistero, dove convivono il giorno e la notte. 

    Al centro un piccolo lampione che illumina con la sua luce fioca una casa, affianco un enorme albero che si staglia cupo su di un cielo azzurro.

    Un ossimoro in arte, che ci lascia stupiti e incantati al tempo stesso e che è metafora della vita. 

    Lo stesso Renè Magritte nel 1966 :

    «Dopo aver dipinto L’empire des lumières, ho avuto l’idea della notte e del giorno che esistono insieme, come fossero una sola cosa. E’ ragionevole: nel mondo il giorno e la notte esistono nello stesso tempo. Proprio come la tristezza esiste sempre in alcune persone e allo stesso tempo la felicità esiste in altre» 

    Magritte senza abbandonare le tecniche convenzionali della pittura mette in dubbio la percezione dell’osservazione. Questo è surrealismo!

  • arte,  arte contemporanea,  podcards

    Nudo di spalle di Umberto Boccioni-PODCARD

    Una donna anziana a mezzo busto seduta su una sedia.

    Di lei vediamo la schiena nuda, rivolta all’osservatore, mentre il capo è di profilo. Il braccio sinistro, ricade lungo il corpo, mentre quello destro, lo si intravede appoggiato allo schienale della sedia.

    La luce filamentosa irrompe nella stanza, accarezzando dolcemente la donna, esaltandone i lineamenti a tratti duri e spigolosi del volto e la morbidezza del corpo.

    Sottile linee di colore danno vita al dipinto, creando un’atmosfera vibrante ed enfatizzando la plasticità anatomica del corpo, del corpo di una donna, del corpo di una madre.

    Boccioni la dolcezza e il colore, la premura di un figlio che da dietro protegge e cura. 

  • arte,  arte contemporanea,  podcards

    Alchimia di Jackson Pollock-PODCARD

    “Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quel che faccio. Solo dopo una specie di “presa di coscienza” vedo ciò che ho fatto. Non ho paura di fare dei cambiamenti, di distruggere l’immagine, ecc. Perché un quadro ha una vita propria. Tanto da lasciarla emergere. Solo quando perdo il contatto col quadro il risultato è caotico. Altrimenti c’è armonia totale, un rapporto naturale di dare e avere, e il quadro riesce”.

    Jackson Pollock

    Lo sguardo percorre tutta l’opera riempita dal colore che è colato sulla tela in modo del tutto casuale. Le linee si assottigliano e si ispessiscono, acquistano velocità e scorrono lentamente, a seconda della densità della pittura.

    La linea non serve più per descrivere figure o contenere forme, ma esiste in qualità di evento autonomo riportando sulla tela i movimenti del corpo dell’artista e le sue scelte istantanee. 

    Un caos si, ma che esprime armonia, l’assoluto nel gesto del dripping.

  • arte

    Bar aux Folies-Bergère di Édouard Manet – PODCARD

    Le parole di Zola trovano una puntuale traduzione nell’opera Bar aux Folies-Bergère di Manet:

    «La bella Lisa era ferma in piedi dietro al suo bancone [….]Florent la contemplava , muto, sbalordito dalla sua bellezza […]Quel giorno ella emanava una freschezza straordinaria […] Florent la guardava furtivamente riflessa nello specchio […]lei vi si riverberava di spalle, di viso, di lato.» 

    Émile Zola

    La forza di quest’opera è nel suo essere traboccante di protagonisti.

    Ciascun angolo della tela potrebbe infatti brillare di luce propria. Protagonisti sono il bancone marmoreo con le diverse bottiglie, protagonisti i fiori nel vaso e sul petto della donna, protagonista lei ritratta fronte-retro. Protagonista infine il mondo riflesso nello specchio.

    In questo caso è il dipinto a guardare lo spettatore…e non viceversa!

    Bar aux Folies-Bergère di Eduard Manet


  • arte,  attualità,  musei

    Maria Lai, Opere e parole

    « – Buongiorno – disse la volpe. – Buongiorno – rispose educatamente il piccolo principe che si girò, senza però scorgere nessuno. – Sono qui – disse la voce – sotto il melo – . – Chi sei? – chiese il piccolo principe. – Sono una volpe – disse la volpe. – Vieni a giocare con me – le propose il piccolo principe.»

    Non è un caso se in questo XXI capitolo del breve capolavoro che Il piccolo principe è, troviamo alcune delle parole care all’arte di Maria Lai: una donna nata nel 1919 sull’ ’asteroide’ sardo di Ulassai. Lei: una ricamatrice di sogni, una rammendatrice di racconti, una filatrice di relazioni.

    L’arte come gioco

    «Vieni a giocare con me» dice il piccolo principe alla volpe. Il gioco. Centrale nella crescita e nello sviluppo del bambino e spesso dimenticato dagli adulti. Per Maria Lai, come per Saint Exupéry, L’immaginazione e quindi il ludus non possono rimanere prerogativa unica dell’infanzia, bensì si devono far strada attraverso l’arte o la letteratura e invadere gli osservatori e i lettori. Così arte e letteratura divengono un luogo, un gioco, in cui familiarizzare e crescere. I luoghi dell’arte a portata di mano (2002) costituiscono allora l’approdo di questa concezione. L’opera è composta da carte destinate a passare di mano in mano con su scritte frasi o parole che interrogano, spiegano, oppongono, affermano. Sono i luoghi e le persone che fruiscono dell’opera a dare all’opera vita e…viceversa. 

    I luoghi dell’arte a portata di mano

    ‘AddomesticARTE’ – Legarsi alla Montagna

    Ma continua poi la volpe…

    « –Sono così triste…Non posso giocare con te – rispose la volpe – non sono addomesticata. – Ah! Scusami – fece il piccolo principe. Ma dopo averci riflettuto su, aggiunse: – Che significa “addomesticare”-. – Significa una cosa che è stata purtroppo dimenticata, – rispose la volpe – significa Creare dei legami…-»

    Addomesticare, non è termine che usava Lai, ma possiamo trovare nelle sue opere quello che Saint Exupery intendeva per ‘addomesticare’: l’istanza, la volontà e il desiderio di ‘creare legami’. Tutto questo lo scoviamo nell’arte di Maria Lai e lo percepiamo tanto forte come probabilmente  mai nell’arte del Novecento. Siamo, ad esempio, nel 1981 quando viene realizzato ciò che non può dirsi opera e nemmeno performance, (poichè non ci sono attori né un copione), insomma un qualcosa che venne poi definito come il primo esempio italiano di ‘arte relazionale’: Legarsi alla montagna

    Lai propose: «leghiamo con un nastro una casa all’altra del proprio vicino, come quando si ha paura e si stringe la mano. Questa sarà l’opera». Più di 25 km di nastro legarono insieme l’8 settembre del 1981 l’intera Ulassai. Il nastro arrivò fin sulla montagna, riportando l’opera alle origini leggendarie da cui quest’idea nacque. Vi era infatti nella cittadina la leggenda di una bimba, la quale per portare cibo ad alcuni pastori, si rifugiò in una grotta e si salvò da una frana poichè vide e seguì un nastro azzurro che svolazzava di fuori. Legarsi alla montagna (come ogni opera d’arte) aveva però un codice ben preciso in quanto non tutte le relazioni sono uguali. È per questo che, qualora vi fosse discordia tra le famiglie, il nastro passava diritto, in caso di serenità o amicizia un nodo o un fiocco, in caso di amore occorreva intrecciarvi un pane.

    L’arte e il tempo: silenzio e attenzione – Le fiabe cucite

    «Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Si riforniscono dai mercanti di cose pronte all’uso. Siccome non ci sono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se vuoi un amico, addomestica me!»

    Il tempo per conoscere. Il creare relazioni come il creare arte necessita di tempo. Ma come trovare e destinare tempo a qualcosa che di tempo ne richiede a bizzeffe, quando di là dagli schermi tutto è venduto come pronto? I nostri minuti, le nostre ore sono oggi più che mai materia di scambio, prodotto. Servono in tutto ciò due atteggiamenti amati da Lai: silenzio e attenzione. Imprescindibili per la composizione e la fruizione delle sue opere e in particolare per il processo che dà vita Fiabe cucite. Un’attenzione sinestetica, poichè quella fiaba è tessuta su tela, pagina dopo pagina. Un silenzio assordante, quello dell’arte del cucito, che è per Lai un movimento attento e tacito d’ago e filo per collegare punti, tracciando storie e facendo racconti.

    Tenendo per mano il Sole, Tenendo per mano l’ombra, Curiosape sono le fiabe cucite più celebri. Libri creati dall’artista con tessuti riusati. Libri che nascono quasi dal nulla, dalla pazienza del filare, del tessere e del cucire. Il filo è segno di un cammino che unisce luoghi e intenzioni: tessere diviene allora un processo per tenere per mano sole e ombra, un momento di relazione tra opposti, tra diversi. Scrive la poetessa Antonella Anedda: «Il suo è un concettualismo lirico dove le ragioni della ragione non dimenticano quelle del cuore». Un libro cucito non si legge, sta e richiede attenzione e silenzio. Non per forza comprensione, attenzione. 

    “Non importa se non capisci, segui il ritmo” disse Salvatore Cambosu a Maria Lai donandole un libro di poesia. Non è così la vita? non siamo chiamati a seguirne il ritmo? a percepirne l’ordito e inabissarci con i fili che ne tracciano il segno?

    Per comprendere a fondo quest’arte è allora necessario – ve lo dico in maniera sgrammaticata e bambinesca – attenzionare e silenziare o silenziarsi. Attenzionare perché non basta fare attenzione, bisognerebbe vivere in attenzione. Silenziare e silenziarci, non per ignorare ciò che si ha attorno, bensì per meglio comprendere le voci di bambini che sono in noi.

    L’arte ci prende per mano

    Ultimo step.

    «Per esempio, se tu vieni sempre alle quattro del pomeriggio, alle tre io già comincerò ad essere felice. Più si avvicinerà il momento, più mi sentirò felice. […] Ma se tu vieni quando ti pare, non saprò mai quando preparare il mio cuore… c’è bisogno di riti. – Che cos’è un rito? – disse il piccolo principe. – È una cosa purtroppo dimenticata – rispose la volpe. È ciò che fa di un giorno un giorno differente dagli altri, una certa ora, un’ora differente dalle altre ore».

    Quella di Maria Lai è un’arte quotidiana e frugale, in qualche modo rituale. Ed è attraverso questa ritualità che dona nuova vita alle cose.

    «Lai è una Parca che non taglia il filo, è una filatrice ma non una Accabbadora, il suo lavoro non smette di germogliare».

    Il rito mette radici nell’attenzione e nel silenzio, il rito si nutre di relazione. Nel 2003 Maria Lai realizza L’arte ci prende per mano. Un’opera costituita da una lavagna con su scritto in bella grafia la frase da cui l’opera prende il titolo, esposta nella piazza delle scuole del paese. 

    L’arte ci prende per mano, 2003, Ulassai

    Ecco l’arte prende per mano ciascuno, come una maestra fa con i bambini impauriti il primo giorno di scuola, si avvicina e ci porge la mano. Eppure, se al bambino come dice Lai «bastano i giochi, le fiabe,  il sillabario, e il ritmo; a [noi] aduli alle amarezze del mondo» e a questi tempi incerti, cosa occorre?

    Lai, la sua arte, propone nel suo essere una via che abbiamo visto passa per la creazione di legami (addomesticare), per il silenziarsi e l’attenzionare affinchè si riscoprano i ritmi e si possa tornare a sillabare, per la riscoperta dei riti per non rimanere (come direbbe Deandré) «più semplicemente dove un attimo vale un altro».

    E infine lungo questa via percepire un senso di responsabilità nella relazione nei confronti dell’altro, poichè come diceva Lai «L’arte è lo spazio di chi non occupa spazio nel mondo».

    «Si diventa per sempre responsabili di chi si addomestica. Tu sei responsabile della la tua rosa… – Io sono responsabile della mia rosa… ripeteva il piccolo principe per tenerlo a mente»

  • arte,  attualità

    L’arte di Jeff Koons

    Noi come i suoi Baloons

    Ora chiudete gli occhi, rilassate i muscoli e, dimenticandovi di ciò che avete attorno, ascoltate il vostro respiro, inspirate…espirate, inspirate…espirate, inspirate…espirate…

    Ecco questo è già un primo passo per capire l’arte di uno tra i più celebri artisti contemporanei, erede di Andy Warhol e autore dei famosissimi Baloon dogs: Jeff Koons.

    Chi è Jeff Koons

    Jeff Koons nasce nel 1955 e compare sulla scena artistica alla fine degli anni Settanta. I suoi primi lavori hanno la forza di estrapolare ciò che più di ogni altra cosa stava modificando la vita pratica e quotidiana delle persone: un telefono, un tostapane, un frigo, e presentarli mutatis mutandis come opere d’arte, ponendoli davanti agli occhi del consumatore/spettatore. 

    Koons quindi inizia riflette e far riflettere sull’eterno binomio arte-mercato che in quegli anni è arte-capitalismo, arte-consumo, arte-pubblicità. La novità, il nuovo esposto e decontestualizzato, poiché tolto alla sua funzione. 

    L’artista elabora una sequenza di novità, new, oggetti, ready made presi dall’arte di Duchamp, mediati dal minimalismo di Flavin e esaltati dal pop di Warhol. 

    La cifra del 'respiro' nell'arte di Jeff Koons

    Di questa serie New, ci interessano i diversi e numerosi aspirapolveri, oggetti del desiderio di migliaia di donne americane, esposti in eterno in vetrine illuminate da neon nelle loro differenti livree di colore. Qui Koons letteralmente mette in vetrina degli oggetti del mercato spostando l’attenzione sulla funzione/vita di queste macchine. 

    Oggetti inattivi diventano arte e, come animali impagliati in un museo naturalistico, vengono privati del loro unico movimento, della loro sola funzione (vitale): del loro respiro. L’aspirapolvere che aspira ed espira diviene, posta in quel contesto, metafora dell’uomo, in quanto partecipa al processo che permette all’uomo la vita. 

    Contenere dell’aria è dunque il sottotesto, la costante di Koons e della sua esperienza artistica. C’è un simbolismo nei gonfiabili, che a che fare con il respiro, con qualcosa che non è visibile.

     

     

    Hoover -Shelton-Pol.tif

    I Baloon dogs di Jeff Koons «canti all'ottimismo»

    Koons dichiarò dopo la vendita di uno dei ballon dog per 58 milioni di dollari: «sono opere simboli di tutti noi, esalare e aspirare aria ci rende inflatables, movimento che è doppio, inalare è movimento della vita, esalare è movimento di morte, ma queste sculture sono canti all’ottimismo a cui macherà sempre il momento della cancellazione». I baloon dogs sono dunque una esaltazione dell’ottimismo di vivere poiché non esaleranno mai l’ultimo respiro. 

    Un’ottimismo caratterizzato dallo stato bambinesco della meraviglia, ma anche dell’incoscienza. Bambinesco è il soggetto, bambinesco è il colore. E Koons sa bene che queste strategie sono le stesse che il capitalismo insinua nella società per rendere anche il bambino un consumatore, un consumatore indiretto. 

    Il Kitsch e il contemporaneo

    Quella di Koons è una forma di rottura netta e sfacciata con l’arte intellettuale degli anni Sessanta e Settanta, è un’arte populista, che prende con se i linguaggi del kitsch.

    C’è infine un’ultimo elemento affatto trascurabile, e che approfondisce ulteriormente la riflessione: La superficie lucida che rimanda all’esterno, specchiando. Cosa nient’affatto nuova. La politura delle superfici è sempre stata utilizzata in arte, dalle pareti marmoree delle chiese che dovevano rispecchiare forme e luci, ai contrasti tra le superfici lisce e quelle lavorate a gradina dei marmi michelangioleschi. 

    E tuttavia, in questi ultimi e nella scultura in generale, la lucidità era utilizzata per mostrare ‘l’interno’, l’anatomicità, la perfezione in essere del soggetto scolpito. In Koons è invece rivelatrice dell’esterno poichè specchia noi stessi, mettendoci impudicamente di fronte ad una verità: questo sei tu! Questi siamo noi!

    Siamo noi nel senso letterale del termine e del soggetto dell’opera: corpi pieni d’aria, effimeri. Ma siamo noi anche nella forma dell’opera d’arte. Questa società, a volte, ci trasforma in grandi, colorati, infrangibili palloncini, compiaciuti e tronfi nelle nostre vanità.

    C’è poi la bellezza e il contrasto tutto contemporaneo, che su quella superficie ci si specchia l’ambiente, il mondo, e quindi il passaggio dall’io al noi diviene impercettibile nella sua vastità.

    Ecco allora, questo siamo noi, volente o nolente è uno specchio del nostro essere oggi. Questa è la forza dell’arte, realizzare opere, oggetti, suoni, immagini che parlino dell’oggi e che propongano riflessioni sullo stato di una società. 

    Un palloncino, noi e il capitalismo.

     Dove esattamente si formulano e si manifestano le novità del pensiero dell’arte della poesia, se tutta l’arte contemporanea è merda? dove il nostro tempo è se stesso?. 

    Jeff Koons a Firenze

  • arte,  arte contemporanea,  attualità,  musei

    Il caso Moro attraverso l’opera di Francesco Arena

    L’affaire Covid come l’affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. E soprattutto oggi, forse più di allora, sarebbe valida e percepiamo come vera l’idea verbale che Aldo Moro restituì dell’Italia: «un Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili».

    Alcuni giorni fa ho assistito a un interessante dibattito televisivo nel quale si partiva da un dato: 55 giorni. 

    Il caso Moro e i giorni della quarantena

    I 55 giorni della storia italiana furono i giorni del sequestro Moro. Poco meno di due mesi in cui l’Italia, il paese Italia, il governo, gli italiani, rimasero sospesi, in bilico tra forze contrastanti, non sempre chiare e manifeste e, soprattutto, con principi e metodi tra loro inconciliabili. 

    Al centro di quel caso, un uomo, prima che un presidente. 

    Ebbene quei 55 giorni sono stati accostati ai giorni da poco trascorsi in casa da tutti noi. Altri tempi, altre motivazioni, altre soprattutto le reazioni suscitate. Rimane interessante questo confronto proposto con le immagini, spesso oppositive di momenti e protagonisti. E tuttavia è mancata a mio parere una riflessione essenziale, che davvero può marcare il segno di distinzione e al tempo stesso accomunare questi diversi 55 giorni. 

    Certo, in entrambi i casi lo sbigottimento, l’incredulità, la paura, di una intera nazione; la coscienza di essere stati colpiti da un nemico poco-visibile, il dubbio e il timore dell’altro. Tutte queste cose accomunano in superficie questi due momenti che in profondità sono però radicalmente differenti.

    L’opera: 3,24 mq

    Un secondo numero: 3,24 mq è il titolo dell’opera dell’artista contemporaneo Francesco Arena (nato nel giugno del 78), realizzata per una mostra della Galleria Monitor ed esposta, per 55 giorni nel 2018, presso il MAXXI. 

    3,24 mq di Francesco Arena, esposta al MAXXI nel 2018.

    L’opera è un luogo, un luogo ricostruito sulle presunte sembianze di un luogo non trovato mai completamente. L’artista racconta di aver visto l’appartamento in cui le BR tenevano Moro e di aver osservato le tracce dei fondelli di questa cella sul pavimento, cancellate poi definitivamente nel 2005.

    Nella Roma, città di santi, di reliquie di pellegrinaggi, Arena si è messo in cammino. La storia d’altronde è mettersi in cammino, mettersi alla ricerca, prendere le misure per conoscere le cose: 3,24 mq costituisce la misura del vuoto di quel luogo.

    L’opera come scultura

    L’opera è una scultura apprezzabile nella sua semplicità esterna di un’anonima cassa per imballaggi e che, già nel termine cassa, evoca il destino funereo di quello spazio tutt’altro che vitale. 

    L’opera come stanza

    L’opera è una stanza, uno spazio concreto senza aggiunte, la ricostruzione della cella in cui Moro trascorse prigioniero i 55 giorni. Penetrabile parzialmente e indagabile visivamente attraverso uno spioncino. Due i punti di vista dunque, uno esterno dell’uomo o della donna che si accostano ad un qualcosa che dicesi arte, come gli uomini e le donne che passarono vicino a quelle mura senza capire cosa ci fosse oltre. E uno meno esterno, dello spettatore che, avvicinandosi ed entrando nel primo piccolo spazio, spia all’interno, scrutando una situazione, percependo una presenza, una storia. Senza tuttavia poterla mai vivere e comprendere a pieno, poiché siamo coloro che, come scriveva Sciascia, la vivono con il senno di poi. 

    L’opera come luogo di trasformazione

    L’opera, suggerisce l’artista, è il luogo della trasformazione di un uomo, di un paese. Quello che rimase in quel non luogo e che rimane in 3,24 è la trasformazione di un uomo libero in un prigioniero. E su questo si gioca il vero raffronto con il contemporaneo. Sui diversi piani dell’unico valore della libertà. Nemmeno immaginabile allora appare il raffronto tra la Libertà (con lettera maiuscola) di cui Moro fu privato, e le libertà di cui ci stiamo volontariamente privando. Forte il significato di interconessione delle diverse e personali libertà che ne scaturisce. 

    Il Covid e l’affaire Moro: libertà

    L’affaire Covid come l’affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. E soprattutto oggi, forse più di allora, sarebbe valida e percepiamo come vera l’idea verbale che Aldo Moro restituì dell’Italia: «un Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili».

    L’opera sono infine delle parole. Poiché ricostruisce lo spazio delle lettere scritte da Moro. Lì, più che mai, si percepisce la vera privazione della libertà.

    «Ecco, nell’Italia democratica del 1978, nell’Italia del Beccaria, come in secoli passati, io sono condannato a morte…» 

    (Lettera a Zaccagnini 22 aprile 1978)

    «Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà». 

    (Discorso del 28 febbraio)